Chiamai l’infermiera dell’assistenza domiciliare, una certa Daniela che lo seguiva già da qualche settimana. Promise di passare nel primo pomeriggio e mi spiegò cosa fare per tenerlo il più comodo possibile nel frattempo.
«Vuoi qualcosa in particolare da mangiare?» gli chiesi, per normalizzare quel poco che si poteva.
«Pesche con la panna» disse, con gli occhi persi nel vuoto. «Mia moglie le faceva tutte le domeniche. Anche d’inverno, usando quelle sciroppate. Io fingevo di lamentarmi, ma ero felice.»
Mi ci vollero tre negozi per trovare delle pesche in barattolo decenti la domenica mattina di dicembre. Le affettai in ciotoline, aggiunsi un po’ di panna montata, gliele portai a letto.
Al primo assaggio gli tremarono gli occhi. «È come tornare in salotto con Marta» sussurrò. «Nessuno si è più ricordato di queste cose, dopo di lei.»
Passai le ore successive a leggere ad alta voce da un vecchio giallo che teneva sul comodino. Ogni tanto parlava, ricordando viaggi mai fatti, piccole cose della vita con la sua prima moglie, un Natale in montagna con la neve fino alle ginocchia. Di Riccardo e di Elena non disse quasi niente. Era come se avesse già chiuso mentalmente quella porta.
Nel pomeriggio arrivò Daniela, l’infermiera. Lo visitò con delicatezza, poi mi fece cenno di uscire in corridoio.
«Gli organi stanno cedendo» disse piano. «È questione di ore, forse un giorno. Preparatevi.»
«Devo chiamare la famiglia?» chiesi, improvvisamente meno sicura di tutto il nostro piano.
Daniela mi guardò seria. «Lei ha chiamato già molte volte, mi pare. Se hanno scelto il mare invece di stare qui, è una scelta loro. Ora pensi a lui.»
Quando rientrammo in camera, Vittorio aveva gli occhi chiusi ma era sveglio. «Hai sentito» disse, senza bisogno di chiedere.
«Sì.»
«Allora chiama Patrizia» mormorò. «È il momento di chiudere il cerchio.»
Un paio d’ore dopo, Patrizia arrivò di nuovo, questa volta con il notaio Tommasi e un tablet.
«Stavamo giusto tornando da un altro cliente» spiegò. «Siamo passati subito.»
Vittorio, contro ogni aspettativa, volle stare seduto, schiena dritta, il maglione sistemato bene. «Voglio che mi vedano come ero» disse. «Non come il “vecchio che dà problemi” che raccontano in giro.»
Firmò gli ultimi allegati: le deleghe per me come amministratrice, alcune disposizioni precise su donazioni a enti specifici, la conferma del testamento. Il notaio lo osservava con un misto di rispetto e tristezza: non è tutti i giorni che si vede una persona sistemare la propria vita con quella calma.
Poi fu la volta della lettera.
Patrizia impostò la registrazione sul tablet. «Se vuole, la leggiamo noi. Lei deve solo dettare.»
«No» disse Vittorio. «Voglio che sentano la mia voce, anche se solo scritta.»
Dettò lentamente.
«Alla mia famiglia» iniziò. «Quando leggerete queste righe, io non ci sarò più. Non che la mia presenza o assenza vi abbia cambiato molto i programmi, negli ultimi anni.»
Descrisse senza urla né insulti i Natali passati da solo, le visite mediche rimandate per “impegni”, le frasi sentite dietro le porte: «tanto ormai è alla fine», «non possiamo fermare la nostra vita per lui».
«La cosa che fa più male in una vita» proseguì, «non è la malattia, né sentire che il corpo si spegne. È accorgersi che per chi amavi sei diventato un peso, un compito da sbrigare, una voce in più su una lista di cose da fare.»
Quando finì, nella stanza c’era un silenzio quasi religioso.
Il notaio guardava il pavimento, Patrizia si pulì gli occhiali un po’ troppo a lungo.
«Faremo in modo che ascoltino ogni parola» disse lei, chiudendo il file.
Più tardi, Vittorio volle anche un video. Tirò fuori una vecchia videocamera da un cassetto.
«Diranno che ero confuso» spiegò. «Voglio che vedano da soli se è vero.»
Gli sistemai la camera su un treppiede improvvisato. Lui guardò direttamente nell’obiettivo, la voce ferma, e raccontò ancora una volta tutto: le medicine ridotte, le bollette non pagate per “risparmiare”, i soldi destinati ai nipoti mai arrivati, le frasi di Riccardo in banca, i viaggi di Elena.
«In quattro giorni» concluse, «Giada mi ha trattato con più rispetto di quanto voi abbiate fatto in quattro anni. Lei è l’unica che ha guadagnato il diritto di decidere qualcosa su ciò che lascio nel mondo.»
Quando spensi la videocamera, ero io quella con la vista annebbiata.
Quella sera, su richiesta sua, non lo misi a letto subito. Volli assecondarlo in tutto.
«Portami in salotto» disse. «Sulla poltrona vicino alla finestra. Voglio guardare un po’ il buio.»
Lo aiutai a scendere, passo dopo passo. Una volta seduto, mi indicò una libreria. «Dietro quei libri di economia c’è una bottiglia di vino. Marta ed io la tenevamo per il nostro cinquantesimo anniversario. Non c’è arrivata lei, non ci arriverò io. Stasera è una buona occasione.»
La trovai: una vecchia bottiglia impolverata. Versai due bicchieri piccoli.
«Alla giustizia» disse lui, sollevando il suo.
«Alla dignità» aggiunsi io.
Rimanemmo così, a sorseggiare piano, a raccontarci pezzi di vita. Lui parlava di quando lavorava in banca in centro, della prima macchina comprata, della volta in cui Marta lo portò a vedere il mare d’inverno e lui si ammalò per una settimana ma non se ne pentì mai. Io, senza entrare troppo nei dettagli, gli raccontai della ragazzina che ero, che sognava di fare l’illustratrice, del padre che veniva alle piccole mostre dei miei lavori con un orgoglio più grande delle dimensioni della sala.
Non parlammo molto di soldi, né di vendetta.
Parlammo di ciò che sarebbe rimasto di lui nelle persone che aveva veramente aiutato.
Verso mezzanotte, il respiro di Vittorio cambiò. Si fece più lento, più profondo, poi sempre più leggero. Gli presi la mano e rimasi lì, seduta sul tappeto vicino alla poltrona.
Non ci furono grandi discorsi finali.
A un certo punto, semplicemente, smise di inspirare.
Rimasi immobile a lungo, le lacrime che scendevano senza singhiozzi. L’uomo che avevo conosciuto da quattro giorni e che mi era entrato nel cuore più di qualcuno che avevo da anni, non c’era più.
All’alba chiamai Daniela, l’infermiera. Venne in fretta, controllò i parametri, compilò i moduli con discrezione. «Sembra che si sia addormentato leggendo» disse, guardando il libro ancora sul bracciolo della poltrona. «Non capita spesso che la fine sia così dolce.»
Poi chiamai l’impresa funebre che Patrizia aveva indicato.
Arrivarono due uomini in giacca scura. Uno di loro riconobbe la casa.
«Conoscevo il signor Ferri dalle raccolte fondi della parrocchia» disse. «Era sempre il primo a firmare gli assegni, ma non voleva che si dicesse in giro.»
Quando la porta si richiuse dietro di loro, la casa sembrò enorme e vuota. Mi concesse dieci minuti per piangere davvero, seduta sui gradini, abbracciando le mie ginocchia.
Poi mi asciugai il viso.
C’era ancora qualcosa da fare.
La parte finale.
Quella in cui la famiglia avrebbe trovato non il “peso” lasciato loro, ma il conto delle proprie azioni.
Il funerale si tenne la domenica pomeriggio. La chiesa del quartiere era quasi piena: vicini, ex colleghi di banca, gente del centro anziani, qualcuno dell’associazione di volontariato a cui aveva donato in passato. Di famiglia, nessuno.
Daniela era venuta, la signora Bianchi piangeva silenziosa in seconda fila. Patrizia, seduta accanto a me, teneva in mano una copia della lettera di Vittorio, pronta per il momento opportuno.
Quando tornai a casa, il sole stava calando.
Preparai il terreno.
Sul mobile del soggiorno misi una busta color crema, con la calligrafia di Vittorio sulla parte esterna: «Per Riccardo, Elena e Melissa».
Sulla credenza della sala da pranzo sistemai in bell’ordine le cartelline con i documenti: Visite mediche annullate, Movimenti bancari sospetti, Testimonianze dei vicini, Registrazioni vocali.
Sul televisore collegai la videocamera con la dichiarazione di Vittorio, pronta da avviare.
Sul tavolo dell’ingresso, invece, posai alcune stampe delle foto della crociera: Riccardo e Chiara al tavolo di un ristorante sulla nave, Elena col cappello di paglia vicino alla piscina, Melissa che sorrideva con un drink in mano. Ogni foto con la data in basso: gli stessi giorni in cui i miei messaggi a Riccardo erano rimasti senza risposta.
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