Infine, preparai il mio bagaglio: poche cose, i miei documenti, il portatile. Il resto della mia vita sarebbe stato altrove.
La mattina del lunedì mi vestii di nero semplice, senza fronzoli, e mi sedetti in soggiorno, vicino alla poltrona a dondolo vuota.
Aspettai.
Poco prima di mezzogiorno sentii il rumore di portiere, risate, voci allegre trascinate sull’eco del cortile.
La porta si aprì con un colpo, come se fosse casa loro — in effetti, fino al giorno prima lo era stata, almeno nella loro testa.
«Amore, siamo tornati!»
La voce di Riccardo rimbalzò nell’ingresso. Entrò con un trolley in mano e la camicia sbottonata sul petto abbronzato. Dietro di lui, Elena con il suo solito profumo intenso, e Melissa, seguita da Chiara che camminava qualche passo più indietro, improvvisamente timida.
Si fermarono tutti insieme quando mi videro, in piedi, immobile, accanto alla poltrona vuota.
Il sorriso di Riccardo si spense. «Ma che è, un funerale?» chiese, cercando una battuta che non arrivò.
Elena si guardò attorno infastidita. «Dov’è Vittorio? Sta dormendo?»
«Vittorio è morto» dissi piano. «È mancato sabato notte. Il funerale è stato ieri.»
I sacchetti di souvenir scivolarono dalle mani di Melissa sul pavimento.
Chiara fece un passo indietro verso la porta. Elena rimase un secondo con la bocca aperta, poi esplose:
«Come morto? Senza nemmeno aspettare che tornassimo? Perché nessuno ci ha avvisati?!»
«Vi ho avvisati» risposi, mantenendo la voce calma. «Più volte. Ho lasciato messaggi vocali a Riccardo, ho mandato foto a Melissa. Vittorio ha passato gli ultimi giorni chiedendo di lui. Non ha ricevuto risposta.»
Melissa si voltò verso il fratello. «Te l’avevo detto che sembrava messo male» sussurrò. «Ti avevo mostrato la foto.»
Riccardo si passò una mano tra i capelli, il viso improvvisamente tirato. «Non è il momento di fare scenate» borbottò. «Dobbiamo sederci e parlare con calma.»
«Sì» dissi. «Sedetevi.»
Li feci accomodare in salotto. Nessuno osò prendere la poltrona di Vittorio. Elena si sedette sul divano, Chiara ai margini, quasi in punta di sedia.
«Prima di tutto» dissi, prendendo la busta color crema dal tavolino, «c’è una lettera che Vittorio ha lasciato per voi. Ha chiesto espressamente che venisse letta al vostro ritorno.»
«Ha cambiato il testamento, vero?» sbottò subito Elena. «È per questo che fai questa messa in scena?»
Alzai un sopracciglio. «Forse è meglio sentire prima le sue parole.»
Aprii la busta, dispiegai il foglio, riconobbi la calligrafia tremante ma ancora elegante di Vittorio.
Lessi.
Raccontava dell’ultimo Natale passato da solo perché “era più comodo così”, delle visite saltate perché «non possiamo sistemare la nostra agenda in base a lui», dei pomeriggi davanti alla televisione mentre lui cadeva in giardino.
Non accusava, non insultava. Descriveva. Con la precisione fredda di chi conta i giorni che gli hanno tolto.
«La sofferenza più grande» lessi alla fine, «non è l’ultimo respiro. È scoprire che, per chi avresti chiamato “famiglia”, sei diventato un incarico, un peso, una scocciatura.»
Quando finii, nessuno parlò.
Melissa aveva gli occhi lucidi. Chiara guardava il pavimento, Elena strinse le labbra, già pronta a negare.
«Era confuso» disse infine, con voce dura. «Fra medicine e malattia, chissà cosa si è messo in testa. Non si può prendere tutto alla lettera.»
«Per questo» risposi, andando verso il televisore, «ha pensato anche a questo.»
Premetti play.
Sul grande schermo apparve Vittorio, seduto sulla sua poltrona, la voce ferma, lo sguardo diritto nella videocamera. Ripeté davanti a loro ciò che aveva già detto davanti a me: le medicine dimezzate, le frasi sentite, i soldi scomparsi, le domeniche da solo. Disse anche il mio nome.
«Questa è Giada» diceva nel video. «In quattro giorni mi ha preparato più pasti, mi ha ascoltato di più e ha rispettato più la mia volontà di quanto voi abbiate fatto in anni. È lei che voglio come custode di ciò che lascio.»
Riccardo si alzò di scatto. «Basta» sbraitò. «È un teatrino! Questa l’hai montata tu!» puntò il dito verso di me. «Lo hai manipolato, gli hai messo in testa quelle idee.»
Il campanello suonò in quel momento, come se una regia invisibile avesse scelto il tempo perfetto.
«Devono essere loro» dissi.
Aprii.
Sulla soglia c’erano Patrizia e il notaio Tommasi, con le loro cartelline e un’espressione che non lasciava spazio ai fraintendimenti.
«Buongiorno» disse Patrizia. «Immagino abbiate già saputo della scomparsa di Vittorio. Sono qui come esecutrice testamentaria per comunicarvi le sue ultime volontà.»
«Perfetto» tagliò corto Elena, cercando di riprendere il controllo. «Così facciamo chiarezza una volta per tutte.»
Ci radunammo tutti nella sala da pranzo, attorno al tavolo dove Vittorio aveva firmato i documenti solo due giorni prima.
Le cartelline con le prove erano lì, immobili e silenziose.
Tommasi aprì il fascicolo ufficiale.
Patrizia parlò.
«Il signor Vittorio Ferri ha redatto un nuovo testamento, regolarmente registrato, alla presenza mia, del notaio e di due medici che ne hanno attestato la piena capacità di intendere e volere» iniziò. «In tale testamento, egli dispone quanto segue: l’intero suo patrimonio — comprensivo di immobili, risparmi, investimenti e della società che detiene questa casa — è lasciato a Giada Rinaldi, qui presente, in qualità di beneficiaria principale e amministratrice di un fondo che destinerà parte delle somme a enti per la tutela degli anziani e delle persone fragili.»
Elena impallidì. «Non è possibile» sussurrò. «Siamo la sua famiglia.»
«Il testamento specifica» continuò Patrizia, imperturbabile, «che Riccardo Rossi ed Elena Conti vengono esclusi dall’eredità per abbandono affettivo e negligenza continuata, dettagliati in allegato con date, testimonianze e documenti.»
Riccardo esplose. «È una truffa! Questo è quello che è! Lei» mi indicò, «è arrivata qui da quattro giorni e si prende tutto?!»
Patrizia non si scompose. «Siete liberi di contestare il testamento in tribunale» disse. «Ma vi ricordo che esistono registrazioni vocali, video, cartelle cliniche, estratti conto, e almeno sei vicini disposti a testimoniare. In più, la banca ha già avviato una verifica sui prelievi effettuati negli ultimi anni a nome di Riccardo con causali “cure per il signor Ferri”.»
Si voltò verso di me. «La casa in cui vivete è intestata alla società di cui Vittorio era titolare e che ora è controllata dal fondo. Eventuali ipoteche o debiti verranno valutati, ma la proprietà non è mai stata legalmente vostra.»
«E i soldi per l’università?» chiese Melissa all’improvviso, con voce rotta. «I risparmi che nonno aveva messo da parte per noi?»
Il silenzio che seguì fu più pesante di qualsiasi risposta.
Fu Patrizia a parlare, con delicatezza. «Anni fa, Vittorio diede a tuo padre una somma consistente con quello scopo. Quei soldi però non sono mai stati versati in un fondo a vostro nome.»
Gli occhi di Melissa si velarono di lacrime. «Li hai spesi tu» disse piano, guardando il fratello. «Per la macchina. Per le vacanze. Per questa crociera.»
«Non cominciare» sbottò lui. «Era tutto per la famiglia!»
La parola “famiglia” risuonò vuota, in quella stanza.
Mentre le accuse rimbalzavano, io mi alzai in silenzio. Andai in camera, presi la mia valigia e la posai in ingresso.
Riccardo mi seguì, abbandonando per un attimo la discussione con Patrizia e sua madre.
«Giada, aspetta» disse, cercando di recuperare il vecchio tono dolce. «Non puoi andartene così. Eravamo solo in pausa, io e te. Ho sbagliato, d’accordo, ma possiamo rimettere insieme le cose.»
Mi mise una mano sul braccio. «Non è colpa mia se mio padre ha queste fissazioni. Tu lo sai com’è la vecchiaia. Sei stanca, sei sconvolta. Fermati qualche giorno, parliamone. Possiamo vendere questa casa, aprire un capitolo nuovo in un’altra città.»
Lo guardai.
Vidi l’uomo che avevo sposato, ma senza il filtro dell’innamoramento: il sorriso come maschera, le parole come strumenti, le promesse come moneta di scambio.
Mi tolsi l’anello dal dito.
Glielo misi nel palmo, insieme alle chiavi del nostro appartamento.
«Tu hai lasciato tuo padre morire mentre eri in piscina con un’altra» dissi, senza alzare la voce. «Hai preso i soldi che mio padre aveva messo da parte per noi e li hai spesi come se fossero un biglietto per la tua libertà.»
Gli occhi gli si allargarono, ma non trovò subito una risposta.
«Non ti devo niente» conclusi. «Nemmeno la tua versione dei fatti.»
Provò l’ultima carta: la rabbia. «Non te la caverai così! Ti porto in tribunale! Ti farò togliere tutto! Dirò che sei una manipolatrice, che hai approfittato di un malato!»
Aprii la porta. L’aria fredda di dicembre mi colpì il viso come una sveglia definitiva.
«Fai quello che credi» dissi, voltandomi un’ultima volta. «Tu mi hai insegnato sempre una cosa, in questi anni: tenere le prove. Io le ho. Tu, no.»
Uscii.
La porta si chiuse alle mie spalle con un suono secco che, nella mia testa, sembrò più leggero di qualsiasi parola.
Attraversando il cortile, vidi la signora Bianchi affacciata al balcone. Mi fece un piccolo cenno con la mano, come chi ha assistito a un temporale e ora vede finalmente il cielo aprirsi.
Le sorrisi. Non avevo più molto fiato, ma avevo qualcosa che non sentivo da tempo: spazio dentro di me.
Patrizia aveva prenotato per me una stanza in una pensione tranquilla, non lontano dal centro. Ci sarei andata, avrei dormito un paio di notti, poi avrei deciso cosa fare del resto della mia vita.
Mentre mettevo la valigia nel bagagliaio della mia macchina, alzai gli occhi verso il cielo grigio di dicembre.
«È fatta, Vittorio» dissi piano, quasi in un soffio. «Loro sapranno esattamente cosa hanno perso. E io non sprecherò quello che mi hai lasciato.»
Il suo vero lascito non erano solo i beni, né la sicurezza economica che, sì, mi avrebbe aiutata a ricominciare.
Era quel senso di valore che avevo riscoperto prendendomi cura di lui.
La consapevolezza che meritavo rispetto, che la mia voce contava, che non ero «un peso» da parcheggiare in qualche angolo della vita di qualcuno.
Misi in moto.
Mentre mi allontanavo da quella casa, non pensavo più alla crociera, né alle urla che sicuramente stavano riempiendo le stanze dietro di me.
Pensavo a un uomo che aveva trovato la forza di dire “basta” proprio quando tutti lo credevano troppo debole.
E al fatto che, seguendo il suo esempio, anch’io avevo appena iniziato la mia vita nuova.
Vittorio aveva trovato la sua pace.
Ora, toccava a me.






