Mio figlio sta bussando forte alla mia porta a Modena, in Via Giardini. Quello che non sa è che io sono a 3.000 chilometri di distanza, con il naso all’insù, sotto il cielo che brucia di verde e viola.
È il 24 dicembre, poco dopo le 17:00. La Vigilia.
Sul display del mio telefono vedo il viso di Dario. Mi sta videochiamando. Alle sue spalle riconosco il legno scuro del mio portone. Sembra stressato, forse spaventato. Il suo respiro crea nuvolette bianche nell’aria gelida della Pianura Padana. Suona il campanello. Ancora e ancora.
Non troverà nessuno. Perché la Livia che cerca – la madre che aspetta sempre, quella sempre disponibile, quella che si accontenta delle briciole di tempo – non abita più lì.
Lascio squillare ancora per un attimo. Devo fare un respiro profondo prima di mostrargli dove sono davvero. Per spiegarlo, devo tornare indietro. Esattamente di un anno.
Il Natale scorso è stato il giorno in cui il mio cuore si è congelato un po’. Mi ero preparata con tanta gioia. Da quando il mio Enzo se n’era andato, il silenzio aveva riempito la casa come una nebbia fitta.
Il Natale era il mio faro. Avevo passato due giorni interi in cucina. Tortellini fatti a mano, uno per uno, piccoli come l’ombelico di Venere, proprio come piacevano a Dario da bambino. Il bollito misto, la salsa verde. La mia vecchia Fiat Panda profumava di brodo e noce moscata mentre guidavo verso la villa nuova di Dario, appena fuori città.
Non avevo avvisato. Pensavo che le madri non avessero bisogno di un invito formale. Pensavo di essere la sorpresa che rende tutti felici.
Quando Dario ha aperto la porta, ho visto l’imbarazzo nei suoi occhi prima ancora del sorriso. «Mamma?», ha detto. «Che ci fai qui?»
Dietro di lui sentivo ridere. Tintinnio di bicchieri di cristallo. Era tutto caldo e luminoso. Poi è arrivata lei, mia nuora. Bellissima nel suo abito di velluto, con un calice di Franciacorta in mano. Ha guardato me, poi le pentole che stringevo tra le braccia come reliquie, e poi ha sganciato la bomba.
«Oh, Livia», ha detto, con una voce non cattiva, ma terribilmente pragmatica. «Questo è… un po’ scomodo. Abbiamo i Conti a cena stasera. Il tavolo è apparecchiato al millimetro. Non ti aspettavamo proprio.»
Non ti aspettavamo proprio.
Quella frase è rimasta sospesa nell’aria, più tagliente del freddo fuori. Ho guardato oltre la loro spalla. La tavola era perfetta. Tovaglioli di lino, candele d’argento, segnaposto eleganti. Otto sedie. Tutte occupate. Non c’era posto per me. Non a tavola. E, così mi è sembrato, nemmeno nella loro vita.
«Io… volevo solo portarvi i tortellini», ho balbettato. Mi sono sentita improvvisamente minuscola. Come una bambina che interrompe i grandi. «Non volevo restare.» Era una bugia. Volevo restare più di ogni altra cosa al mondo.
«Dai, entra un attimo», ha detto Dario, passandosi una mano tra i capelli. «Possiamo prendere una sedia pieghevole dal garage. Ci stringiamo.»
Una sedia pieghevole. All’angolo del tavolo. Mentre gli ospiti “veri” sedevano sul velluto. «No», ho detto, costringendomi a un sorriso che mi faceva male fisicamente. «Ho… ho un impegno. Le amiche del burraco mi aspettano.»
Gli ho messo le pentole in mano, mi sono girata e sono andata via. Quella sera, nella mia cucina buia a Modena, ho mangiato pane e formaggio. Sentivo le campane della Ghirlandina suonare a festa, e non ho pianto. Ero solo vuota. Mi sono giurata: Mai più. Mai più sarò l’ospite indesiderato nella vita di mio figlio.
I mesi sono passati. L’estate è scivolata via. E poi, mettendo in ordine, ho trovato una vecchia rivista di viaggi di Enzo. Dentro c’era un segnalibro su una pagina: “Tromsø e l’Aurora Boreale – Viaggio alla fine del mondo”. Lo sognavamo da una vita. «Quando andiamo in pensione, Livia», diceva sempre Enzo. «Andiamo a vedere il cielo che balla.»
Non l’abbiamo mai fatto. Prima il mutuo, poi l’università di Dario, poi la malattia di Enzo. Ho fissato quella pagina. Poi ho guardato il mio conto in banca. I soldi per la “vecchiaia”. I soldi per la badante, per “quando non sarò più autosufficiente”.
Ma se quel “poi” non arrivasse mai? Se il futuro fosse solo un altro Natale con pane e formaggio?
Il giorno dopo sono andata in agenzia viaggi in Piazza Grande. La ragazza mi ha guardato sorpresa: «Una persona sola? Norvegia? A Natale?». «Sì», ho risposto. «Solo andata, per ora.»
E adesso? Adesso premo il tasto verde della videochiamata.
«Mamma!», urla Dario. Sembra quasi nel panico. «Dove sei?! Siamo qui davanti! Abbiamo… abbiamo messo un posto in più quest’anno! Volevamo farti una sorpresa e portarti a casa nostra!»
Alza un sacchetto. Vedo un pacchetto regalo dentro. Sento una fitta al cuore, ma non fa male. È solo malinconia. È un bravo ragazzo, il mio Dario. Ma è un uomo adulto. La sua vita è piena, ed è giusto così. La mia non deve essere vuota solo perché la sua è piena.
«Ciao, amore mio», dico. «Perché non apri?», chiede lui. «Ti sei sentita male?»
Giro la fotocamera. Non gli mostro la carta da parati a fiori del mio ingresso. Gli mostro la neve. Profonda, intatta, scintillante. E poi inquadro il cielo. Sopra di me, nel buio artico di Tromsø, veli verdi e viola danzano come spiriti, come musica visibile. È la cosa più bella che abbia mai visto.
«Mamma?», la sua voce diventa un sussurro. «Dove… dove sei?»
«Sono dove io e papà volevamo sempre andare, Dario», dico, sentendo l’aria gelida che mi pizzica le guance. Non mi sento una donna di 72 anni. Me ne sento 20. «Non aspetto più che si liberi una sedia pieghevole. Mi sono cercata il mio posto nel mondo.»
Dario tace. Vedo mia nuora avvicinarsi allo schermo, con la mano sulla bocca. Vede l’aurora. «Sei lì da sola? A Natale?», chiede Dario, incredulo.
Mi guardo intorno. Accanto a me c’è un gruppo di ragazzi spagnoli e una coppia giapponese. Ci siamo appena capiti a gesti e abbiamo condiviso del vin brulè. «No», dico dolcemente. «Non sono sola. Sono con me stessa. E con papà.»
Una lacrima scende sulla guancia di Dario. Forse adesso capisce. Forse capisce che l’amore non significa aspettare in un angolo finché non servi a qualcuno.
«Buon Natale, Dario», dico. «Dai un bacio ai bambini.» «Buon Natale, Mamma», sussurra lui. «Sembri… felice.» «Lo sono», rispondo.
Chiudo la chiamata. Infilo il cellulare nel piumino. Il freddo qui morde, ma non ferisce. Ti sveglia. Faccio un respiro profondo. L’aurora continua a danzare, solo per me.
Passiamo metà della vita a insegnare ai nostri figli a camminare, affinché possano andare via da noi. Ma spesso dimentichiamo di insegnare a noi stessi come camminare ancora, quando loro se ne sono andati.
Non aspettare che qualcuno aggiunga un posto a tavola per te. Il mondo è immenso. E il posto migliore a Natale non è a un tavolo affollato dove sei di troppo – ma ovunque il tuo cuore possa ricominciare a battere forte.
Sii l’ospite d’onore della tua vita. Ti stavi aspettando.
Buon Natale a chi ha il coraggio di scegliere se stesso.
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