Il telefono è ancora caldo nella tasca del piumino quando capisco una cosa: questa non è la fine della mia fuga, è l’inizio del mio ritorno. Ma non a Modena. A me stessa.
Resto qualche secondo immobile, con il naso all’insù, come se il cielo potesse darmi un consiglio. L’aurora si muove lenta, indifferente alle nostre piccole urgenze umane, eppure sembra fatta apposta per consolare: un verde che si accende e si spegne, un viola che sboccia come un livido bellissimo. L’aria artica mi entra nei polmoni e mi pulisce dentro. Non è un freddo cattivo. È un freddo che ti fa sentire viva.
«Tutto bene?» mi chiede qualcuno in un italiano stentato.
Mi giro. È uno dei ragazzi spagnoli, cappello tirato fin sopra le sopracciglia, guance rosse, occhi lucidi come se avesse pianto o riso troppo. Ha in mano un bicchiere fumante, e l’odore dolce delle spezie arriva fino a me.
«Sì,» rispondo. «È… difficile da spiegare.»
Lui fa un gesto come a dire non serve. Mi porge il bicchiere. «Bevi. Natale.»
Sorrido. «Natale,» ripeto. E la parola, sulla mia lingua, non pesa più come una pietra. È solo una parola. Un giorno. Un pezzo di calendario.
Bevo. Il liquido mi scotta un po’ il palato e poi mi scioglie lo stomaco, come se qualcuno avesse acceso una stufa dentro di me. Attorno, le persone parlano sottovoce in lingue diverse. Non capisco quasi nulla, eppure mi sento parte di qualcosa. Non perché mi abbiano “messo un posto in più”. Ma perché qui nessuno deve meritarsi una sedia.
La coppia giapponese si stringe per una foto. I ragazzi spagnoli ridono piano e indicano il cielo come bambini. Un uomo alto con barba bionda — una guida, forse — fa cenno di avvicinarci a un punto più buio, dove le luci della strada non mangiano i colori.
Cammino. La neve scricchiola sotto gli scarponi. Ogni passo sembra dire: brava, Livia. Come se le mie ginocchia, che a Modena si lamentano sempre, qui avessero deciso di smettere di fare le signore e diventare ragazze.
E mentre cammino, senza volerlo, mi torna in mente Dario. Il suo sacchetto. Il pacchetto regalo. La frase: “Abbiamo messo un posto in più quest’anno.”
Un tempo mi avrebbe sciolta. Un tempo mi avrebbe fatto correre indietro. Avrei detto: Arrivo subito. Scusami. Non lo faccio più. Basta che mi vuoi.
Adesso invece sento solo una cosa: tenerezza. E, sotto, qualcosa di nuovo. Un confine. Una linea chiara.
Perché l’amore, lo capisco adesso, non è un tappeto su cui ti calpesti da sola per non far inciampare gli altri.
La notte a Tromsø non finisce mai davvero. È buio, sì, ma è un buio vivo, come un teatro. Le luci delle case lontane fanno puntini gialli sulla neve. Ogni tanto il vento porta un odore di legno bruciato, come se qualcuno stesse cucinando una zuppa in una favola.
A un certo punto l’aurora rallenta, sbiadisce, come se anche lei avesse bisogno di riposo. La guida dice qualcosa in inglese. Le persone cominciano a sciogliersi, a salutarsi, a camminare verso i pullmini.
«Vuoi venire con noi?» mi chiede il ragazzo spagnolo, indicando gli altri. «Dopo… cioccolata. Calda.»
Mi viene da ridere. Io, Livia, settantadue anni, che accetta inviti da ragazzi spagnoli sotto l’aurora. Se lo raccontassi alle mie amiche del burraco, mi farebbero il segno della croce.
«Sì,» dico. «Volentieri.»
Ci infiliamo in un piccolo locale vicino al porto — caldo, rumoroso, pieno di giacche appese e risate. L’aria sa di zucchero, latte e qualcosa di tostato.
Mi siedo a un tavolo con loro. Mi offrono una tazza di cioccolata densa come crema. Qualcuno tira fuori un telefono e mette una canzone natalizia. Io non la conosco, ma batto le mani lo stesso, piano, come se fossi a tempo con la vita.
«Come ti chiami?» mi chiede una ragazza con capelli ricci e un neo grande sulla guancia, un difetto bellissimo che sembra una firma.
«Livia.»
«Livia,» ripete lei con cura, come se fosse una parola nuova. «Io sono Marta. Lui è Diego, lui è Pablo…»
Mi presentano tutti. Mi fanno domande: da dove vengo, perché sono lì, se mi piace la neve, se ho già visto le renne. Io rispondo con frasi semplici, ridendo quando sbaglio. E, a un certo punto, mi accorgo che non sto “facendo finta”.
Sto vivendo.
La domanda arriva quando la tazza è quasi vuota e la stanchezza comincia a premere dietro gli occhi.
«Sei qui da sola?» chiede Marta, più piano.
La parola sola di solito mi taglia. Stasera no.
Guardo il vetro appannato della finestra. Fuori, la neve continua a cadere come se qualcuno stesse scuotendo un cuscino enorme.
«Sono qui con me stessa,» dico. «E con qualcuno che non c’è più.»
Loro capiscono senza chiedere. Marta allunga una mano e mi tocca le dita, un gesto piccolo, umano. Nessun pietismo. Solo presenza.
E in quel momento penso: Dario mi vuole bene. Ma non è l’unico posto dove esiste il bene.
Torno in hotel che è quasi mezzanotte, o forse è già domani — qui il tempo è strano, si arriccia su se stesso. Le scale scricchiolano. La moquette del corridoio ha un odore un po’ vecchio, un po’ pulito. Entro nella mia stanza e chiudo la porta piano, come se potessi svegliare il mondo.
Appoggio il telefono sul comodino.
E vibra.
Un messaggio.
Dario.
“Mamma… scusami. Non sapevo. Non capivo. Dimmi che stai bene.”
Resto ferma con il cappotto addosso, come una statua. Guardo le parole. Le leggo e le rileggo. Scusami. Non sapevo.
Sento una fitta, sì. Ma non è quella fitta vecchia, che ti fa diventare piccola. È una fitta diversa. È come quando ti muovi dopo mesi di immobilità e un muscolo, finalmente, si risveglia.
Mi siedo sul letto. Mi tolgo i guanti. Le mani mi tremano un po’, ma non di freddo.
Potrei rispondere mille cose. Potrei fare la madre che consola e perdona e sistema tutto in una frase dolce.
Invece faccio un respiro. E scrivo piano, come se stessi mettendo mattoni.
“Sto bene. Sono felice. E non è una punizione. È una scelta.”
Pausa.
Poi aggiungo:
“Possiamo parlarne, ma non adesso. Adesso è la mia Vigilia.”
Invio.
Resto a guardare lo schermo, aspettando quel battito di paura che di solito arriva dopo aver messo un limite. Ma il battito non arriva. Arriva un’altra cosa: silenzio. Un silenzio buono. Come neve fresca.
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