Il sole del tardo pomeriggio stendeva una luce arancione sulle case basse di un tranquillo quartiere di Ferrara, mentre il capitano Marco Rinaldi scese dal taxi con la borsa in mano. La divisa era ancora ordinata, ma portava addosso la stanchezza di mesi lontani, di notti senza sonno e di strade polverose viste in posti che non aveva mai raccontato a nessuno.
Erano passati due anni dall’ultima volta che aveva abbracciato sua figlia, Elena, tredici anni appena compiuti. In quei giorni lontani, quando tutto sembrava troppo pesante, Marco si era aggrappato sempre alla stessa immagine: Elena che gli corre incontro, che ride come faceva da bambina, che gli si stringe addosso senza fare domande.
Quella speranza lo aveva tenuto in piedi.
Ma appena imboccò il vialetto di casa, qualcosa gli si fermò nello stomaco.
Il giardino era in disordine: erba alta, foglie secche ovunque, nessun gioco in vista. Le finestre, che un tempo lucidavano insieme la domenica mattina, erano segnate da strisce di sporco. Persino l’aria sembrava diversa, più fredda, più vuota.
Marco si avvicinò alla porta e bussò.
Nessuna risposta.
Bussò di nuovo, più forte.
Silenzio.
Poi, da dietro, arrivò un colpo di tosse… debole, come soffocato.
Marco girò intorno alla casa, seguendo quel suono. I suoi stivali calpestavano la ghiaia del cortile. In fondo, vicino a una piccola costruzione di legno e rete metallica, vide il recinto degli animali. La recinzione era piegata, la porta del capanno socchiusa.
E lì… lo vide.
Nel recinto dei maiali, a piedi nudi e sporca di fango, c’era Elena. I capelli erano aggrovigliati, la faccia pallida, i vestiti strappati e troppo leggeri per l’aria fresca della sera. Con le mani che tremavano, versava del mangime nella mangiatoia, come se quel gesto fosse diventato un’abitudine senza fine.
Per un attimo Marco non riuscì nemmeno a respirare.
«Elena…?» disse, come se avesse paura che fosse un’illusione.
Lei si voltò lentamente. Gli occhi si aprirono di colpo, pieni di lacrime.
«Papà?» La voce era sottile, spezzata, come se avesse dimenticato come si parla con dolcezza.
Marco fece un passo avanti, ma proprio in quel momento una voce alle sue spalle tagliò l’aria.
«Sta facendo le sue faccende. Niente drammi.»
Marco si girò.
Silvia, la sua seconda moglie, era sulla soglia del cortile. Trucco perfetto, braccia incrociate, sguardo duro. Sembrava più infastidita che sorpresa.
Marco sentì un calore violento salire dal petto alla gola.
«Faccende?» disse a bassa voce. «Sta per svenire.»
Elena abbassò lo sguardo. Le spalle si chiusero, come se volesse sparire.
Poi, quasi senza forza, sussurrò: «Mi… mi ha fatto dormire qui… sulla paglia.»
Silvia alzò gli occhi al cielo, come se Elena stesse recitando.
«Ha disobbedito. Le serviva disciplina.»
Marco strinse i pugni. Aveva visto la crudeltà in posti lontani, ma quella… quella era crudeltà dentro casa, la peggiore, perché ti tradisce dove dovresti sentirti protetto.
«L’hai lasciata qui come un animale,» disse, e la voce gli tremava dalla rabbia.
Silvia fece un passo avanti. «Tu sei andato via. Qualcuno doveva insegnarle la responsabilità.»
Marco si mise tra lei ed Elena, coprendo sua figlia con il corpo.
«Elena, vai dentro. Adesso.»
Elena esitò. Negli occhi aveva paura, non solo di Silvia… ma anche di credere davvero che fosse finita.
Silvia scattò: «Non ti muovere!»
Marco si voltò lentamente verso Silvia, con un tono basso e gelido.
«Se la tocchi ancora,» mormorò, «te ne pentirai.»
Dietro di lui, Elena rimase ferma, le lacrime che rigavano il fango sulle guance, senza sapere se finalmente era al sicuro… o se stava per arrivare una tempesta più grande.
Elena corse dentro casa, stringendo il respiro come se fosse un segreto. Marco restò nel cortile, faccia a faccia con Silvia. La tensione era così tagliente che sembrava poter ferire.
«Pensi di tornare e comandare?» sibilò Silvia, avvicinandosi. «Sono io che ho tenuto insieme questa casa. Non puoi fare l’eroe adesso.»
Marco serrò la mascella. «Tenere insieme una casa non significa distruggere una bambina.»
«È pigra!» esplose Silvia. «Piange per tutto, inventa sempre che ha fame, non si comporta come dovrebbe. Tu l’hai viziata. Aveva bisogno di conseguenze.»
Marco la fissò, incredulo. «Ha tredici anni, Silvia. È una figlia, non una serva.»
Silvia scosse la testa con disprezzo. «Tu non sai quanto è stato difficile. Bollette, spese, responsabilità. E lei? Lei prende e basta.»
Marco fece un respiro profondo, cercando di non urlare.
«Dov’è la sua camera?»
Silvia non rispose.
Marco entrò in casa. Il corridoio era buio. Elena era lì, in piedi, con un vecchio peluche tra le braccia. Gli occhi rossi, la faccia stanca.
«Papà… la mia stanza non è più mia.»
Marco spalancò la porta della cameretta di Elena.
Le pareti, che lui aveva dipinto di giallo anni prima, erano quasi invisibili dietro scatoloni e borse. Il letto non c’era più. Al suo posto: secchi, detersivi, vecchie decorazioni di festa, cose ammassate come in un ripostiglio.
Marco sentì come un pugno nello stomaco.
Si inginocchiò davanti a Elena e le prese le mani.
«Prendi tutto quello che è tuo. Ce ne andiamo.»
Elena annuì, e corse in una stanza laterale. Tornò con un piccolo zainetto: dentro c’erano poche cose, così poche che a Marco si spezzò il cuore.
Silvia comparve dietro di loro, furiosa.
«Tu NON la porti via! Questa è casa mia! E lei… lei mi deve—»
Marco si girò di scatto. «Non ti deve niente.»
Restarono a pochi centimetri. Marco, che aveva camminato tra pericoli e ordini, guardava la donna che aveva trasformato una casa in una gabbia.
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