«Mamma, guardami! Sono io. Sono Marcello.»
«Dobbiamo prenderlo, Marcello! È uscito senza sciarpa e ha appena finito la chemio, non può…»
«Mamma!» Urlai per sovrastare il rumore delle onde e il caos nella sua testa. «Matteo non c’è. Matteo è andato via vent’anni fa. Quel bambino non è lui.»
Lei si bloccò. Il respiro le usciva in nuvolette bianche e affannose. Guardò il bambino lontano, poi guardò me. La confusione nei suoi occhi si trasformò lentamente in orrore, poi in una tristezza così profonda da sembrare un abisso. Le gambe le cedettero.
La sorressi e ci lasciammo cadere entrambi sulla sabbia fredda. Lei nascose il viso nel mio cappotto di lana, piangendo come una bambina.
«Non voglio dimenticare che è morto, Marcello», singhiozzò. «Perché se dimentico che è morto, vuol dire che dimentico che è vissuto. È questo che succederà? Un giorno mi sveglierò e non saprò nemmeno di aver avuto due figli?»
La strinsi forte, cullandola mentre il mare continuava il suo eterno movimento, indifferente al nostro dolore. Era questo che Matteo voleva? Aveva chiesto di ridere, di essere felici. Ma come si fa a essere felici quando la mente ti tradisce?
Poi mi ricordai le parole esatte del biglietto. E che abbracci forte Marcello, perché ora è lui il fratello grande.
Matteo non aveva solo chiesto gioia. Aveva chiesto un passaggio di consegne. Sapeva che la Mamma sarebbe diventata fragile. Sapeva, con quella preveggenza inquietante dei bambini malati, che un giorno i ruoli si sarebbero invertiti. Io non ero più il figlio che doveva essere protetto o rimproverato per i voti a scuola. Io ero il custode. Il pilastro.
«Ascoltami», le dissi, scostandole i capelli dal viso bagnato di lacrime. Parlai lentamente, scandendo ogni parola. «Tu potrai dimenticare. È possibile. Ma io no. Io sono l’architetto, ricordi? Io costruisco cose che restano. Io ricorderò per tutti e due.»
Alzò lo sguardo, gli occhi arrossati. «Ricorderai tutto? Anche quanto rompeva le scatole con i Lego sul pavimento?»
Sorrisi, asciugandole una lacrima con il pollice. «Soprattutto quello. Ricorderò la sua voce, i suoi occhi grandi, e anche il fatto che hai bruciato le lasagne oggi.»
Lei emise una risata strozzata, metà singhiozzo, metà sollievo. «Non dirlo a nessuno delle lasagne. Mi rovinerebbe la reputazione.»
«Sarà il nostro segreto.»
Restammo lì finché il sole non scomparve del tutto e il freddo divenne insopportabile. Quando ci alzammo, la aiutai a pulirsi il cappotto dalla sabbia. Sembrava più fragile di prima, ma anche più leggera. Aveva guardato in faccia il mostro della sua malattia e aveva scoperto di non essere sola a combatterlo.
Tornando verso la macchina, si fermò un’ultima volta a guardare il mare scuro.
«Sai, Marcello», disse con voce calma. «Matteo aveva ragione. È bello qui. Forse… forse potremmo tornarci in primavera? Magari potremmo mangiare quel gelato al pistacchio che piaceva a lui. Qui ne faranno uno buono.»
«Il migliore della Liguria», assicurai, aprendole la portiera.
Il viaggio di ritorno fu diverso. Lei si addormentò quasi subito, esausta. Guidai nel buio dell’autostrada, ascoltando il suo respiro regolare accanto a me.
Guardai la mia immagine riflessa nello specchietto retrovisore. Ero lo stesso uomo di quella mattina, eppure ero cambiato. Avevo smesso di cercare di “aggiustare” mia madre o di cementare le mie emozioni per non sentire male.
Avevo accettato che la nostra vita da quel momento in poi sarebbe stata imperfetta, fatta di lasagne bruciate, di nomi dimenticati e di scambi di persona. Sarebbe stata una struttura instabile.
Ma, come mi aveva insegnato mio fratello dodicenne vent’anni prima, le strutture più belle non sono quelle che restano intatte per sempre, chiuse in un barattolo. Sono quelle che vengono vissute, consumate, abitate fino all’ultimo mattone.
Parcheggiai sotto casa sua a Milano. La svegliai dolcemente.
«Siamo arrivati?» chiese, stropicciandosi gli occhi. «Che ore sono?»
«È tardi, Mamma. Andiamo a casa.»
Mentre salivamo le scale, si appoggiò pesantemente al mio braccio. Arrivati al pianerottolo, prima di entrare, si voltò verso di me. Nei suoi occhi c’era un momento di lucidità cristallina, uno di quei regali che la malattia concede crudelmente di tanto in tanto.
«Grazie, Marcello», disse. «Oggi non abbiamo solo esaudito Matteo. Oggi hai esaudito me.»
«In che senso?»
«Avevo paura di essere solo una madre in lutto. O una vecchia malata. Oggi… oggi mi sono sentita viva. Anche se fa male. È meglio sentire male che non sentire nulla, vero?»
«Sì, Mamma. È molto meglio.»
La lasciai sulla porta, aspettando che chiudesse a chiave dall’interno come facevo sempre. Ma prima di chiudere, mi chiamò un’ultima volta.
«Marcello?»
«Sì?»
«Domenica prossima… vieni a pranzo? Faccio l’arrosto. E giuro che metto il timer al forno.»
Sorrisi, un sorriso vero, che mi arrivò fino agli occhi. «Porto il vino. E magari anche un quaderno.»
«Un quaderno? Per fare cosa?»
«Per scriverci tutto. Le ricette, le storie, i ricordi di Matteo. Iniziamo a costruire il nostro archivio, Mamma. Prima che la nebbia scenda di nuovo.»
Lei annuì, e per la prima volta vidi nei suoi occhi non la rassegnazione, ma una nuova determinazione. «Buonanotte, fratello grande», sussurrò.
La porta si chiuse con un clic. Rimasi un attimo nel silenzio del pianerottolo, dove l’odore di ragù bruciato era ormai svanito, sostituito dal profumo familiare di cera per pavimenti e vita vissuta.
Tirai fuori il telefono e creai una nuova nota. La intitolai: Domenica 1. Cose da non dimenticare. Digitai la prima riga: Oggi la Mamma ha riso davanti al mare d’inverno e ha scambiato un estraneo per Matteo. Ma poi è tornata da me.
Misi il telefono in tasca e scesi le scale. Fuori Milano era fredda e indifferente come sempre, ma io non sentivo freddo. Avevo un progetto da portare a termine.
E per la prima volta in vent’anni, non stavo costruendo muri per tenere fuori il dolore, ma ponti per attraversarlo insieme.






