Parte 1
L’aria di ottobre sulle Dolomiti ti entra nelle ossa. È un freddo umido, che si infila sotto i vestiti e ti resta dentro. È la prima cosa che ricordo di quel giorno.
La seconda è il silenzio.
Mi chiamo Elisa. Vivo con mia nonna in una baita che sta nella nostra famiglia da quattro generazioni, così in fondo al bosco che persino quelli del censimento si perdono ogni dieci anni. Viviamo fuori dal mondo “ufficiale”. Coltiviamo il nostro cibo, tagliamo la nostra legna, curiamo la nostra gente.
Nonna è una maestra erborista, e io sono la sua apprendista. Siamo quelle a cui i paesani vengono quando le pareti bianche e fredde di uno studio medico fanno più paura della malattia.
Quel giorno stavo controllando le mie trappole per conigli, non… non per persone.
Il bosco era muto. Troppo muto. Nemmeno le ghiandaie strillavano. È un brutto segno. Vuol dire che un predatore è vicino. Pensai a una lince, forse a un orso.
Sfilai il coltello dalla guaina alla cintura, il cuore che batteva un tamburo basso e regolare contro le costole.
Sentii il torrente prima di vederlo, l’odore dell’acqua fredda e delle pietre bagnate, e fu allora che lo vidi.
Era lì. In piedi. Sulle rocce scivolose, coperte di muschio, vicino all’acqua. Non poteva avere più di dieci anni. E c’era qualcosa di sbagliato in lui. Tutto in lui era “sbagliato”.
Indossava un giubbotto che da solo valeva più del nostro vecchio furgone. Nero, lucido, imbottito. Le scarpe erano di pelle lucida, da città, ora piene di fango. Era pallido come porcellana, i capelli scuri incollati alla fronte da un sudore freddo.
Ma furono i suoi occhi. Dio, i suoi occhi.
Erano aperti, rivolti dritti davanti a sé, ma… spenti. Come se qualcuno avesse staccato la corrente. Vuoti, piatti, senza vita. Guardavano, ma non vedevano.
«Ehi,» chiamai, la mia voce troppo forte in quel silenzio irreale. «Ehi, piccolo! Stai bene?»
Nessuna risposta. Neanche un battito di ciglia.
Mi avvicinai piano, come si fa con un cervo spaventato. «Piccolo? Mi senti?»
Ero a tre metri. Poi a due. Passai una mano davanti al suo viso. Niente. Restava lì, rigido, un tremito leggero ma continuo che scuoteva il suo corpo. Le labbra erano bluastre.
«Oh, Dio,» sussurrai. «Sei congelato.»
Gli toccai la mano. Era come ghiaccio. Un blocco di ghiaccio.
Mi guardai intorno. Nessuno. Nessun genitore, nessun escursionista, nessuna macchina. Solo il bosco, immenso e silenzioso.
Chi lascia un bambino così? Un bambino… cieco?
«Va bene,» dissi, più a me stessa che a lui. «Va bene, andiamo a casa.»
Gli presi la mano gelata. «Mi chiamo Elisa. Ti aiuterò io. Andiamo alla mia baita. È calda, d’accordo?»
Sussultò al mio tocco, uno scatto violento di tutto il corpo, ma non si tirò indietro. Era così rigido che dovetti letteralmente girargli il corpo e guidarlo. Camminava come un automa, con le scarpe eleganti che inciampavano su radici e sassi. L’ultimo tratto praticamente lo trascinai.
Quando spalancai la porta della baita, nonna alzò lo sguardo dal fornello a legna, la padella di ghisa in mano. Il suo viso, di solito una mappa di rughe dolci, si irrigidì.
«Elisa? Ma chi… in nome del cielo…?»
«L’ho trovato al torrente, nonna,» ansimai, trascinando quel corpo rigido verso il focolare. «È mezzo assiderato. E… nonna, credo che sia cieco.»
Nonna, pratica com’era, non fece domande inutili. «Togliamogli subito quei vestiti bagnati. Svelta. Io preparo il verbasco e la consolida.»
Ci muovemmo in fretta. Gli togliemmo quegli abiti assurdamente costosi, fradici. Sotto era solo un bambino magro, tutte costole e spigoli. La pelle chiazzata dal freddo. Lo avvolgemmo in tre delle nostre coperte di lana più pesanti e lo mettemmo vicino al fuoco.
Nonna tornò con i suoi barattoli. Gli prese il viso tra le mani, girandoglielo verso la luce.
«No,» mormorò piano, guardando dentro quelle pupille vuote. «Gli occhi sono limpidi. Non è una cecità fisica, Eli. È nella testa. Qualcosa… qualcosa l’ha spezzato.»
Un brivido diverso mi corse lungo la schiena, che non aveva niente a che fare con il tempo.
Nonna era sorpresa, ma sapeva cosa fare. Lei viveva con una regola sola: si aiuta chi hai davanti. Capì subito che quel bambino aveva bisogno di qualcosa in più di un ospedale. Aveva bisogno di cura.
Accesi le lampade a olio, riempiendo le pareti di legno di una luce calda e tremolante. Nonna prese i suoi rimedi dai mazzetti appesi alle travi. Calendula secca e camomilla per calmare. Li mise in infusione in acqua calda, non bollente. Poi inzuppò un panno di lino morbido nel liquido profumato.
Mi inginocchiai davanti al bambino, che tremava ancora, avvolto nella nostra coperta più spessa accanto al camino. «Sarà caldo,» gli sussurrai, senza sapere se mi sentisse. «Serve solo per farti rilassare.»
Appoggiai delicatamente il panno caldo sugli occhi e sulle tempie.
Lui sobbalzò di colpo, emise un piccolo suono soffocato, come un pianto imprigionato dentro troppo a lungo. Si ritrasse, ma io tenni la mano ferma, il tocco dolce ma insistente.
«Shh, shh, va tutto bene. Sei al sicuro qui. È solo acqua calda e fiori,» mormorai.
Pian piano, lentissimamente, la tensione nelle sue spalle si allentò. I tremori non sparirono, ma si attenuarono. Era ancora lontanissimo, chiuso dentro di sé, ma per la prima volta da quando l’avevo trovato il suo corpo sembrava registrare qualcosa. Calore. Sicurezza.
Così iniziò la settimana più strana e spaventosa della mia vita.
Lo chiamammo Daniele. Dovevamo chiamarlo in qualche modo. Lui non parlava. Non reagiva.
Gli avvicinavamo il brodo alle labbra e gli colava fuori dalla bocca, se non gli massaggiavamo delicatamente la gola per farlo deglutire. Era un fantasma nella nostra baita.
Io gli parlavo. Gli parlavo per ore. Gli raccontavo degli alberi, del suono del vento tra i pini, dell’odore del pane che cuoce nel nostro forno a legna. Gli descrivevo i colori dell’alba che lui non vedeva.
«È rosa, Daniele,» dicevo, tenendolo (ancora avvolto nelle coperte) vicino alla finestra che dava a est. «Adesso è un rosa morbido, sonnolento, come l’interno di una conchiglia. Tra un po’ diventerà fuoco. Tutto oro e arancio, e brucerà la nebbia sulla montagna.»
Niente.
Nonna lavorava sul suo corpo. Gli massaggiava i piedi con oli caldi — zenzero e pepe nero — per rimettere in moto la circolazione. Gli preparava tisane di lavanda e escolzia per calmare, come diceva lei, «la tempesta nei nervi».
Il quarto giorno ero seduta di fronte a lui, rammendando uno strappo sulla mia giacca. Nella baita c’era silenzio, solo il tic tic dell’ago e lo scoppiettio del fuoco.
Gli stavo descrivendo il colore del filo. «È un verde scuro, come il muschio sul lato nord degli alberi. Non il verde allegro delle foglie nuove, ma un verde profondo, vecchio. Quel verde che sembra nascondere dei segreti.»
Alzai gli occhi. E mi immobilizzai.
Una lacrima solitaria gli stava scendendo sulla guancia sinistra.
Mi mancò il fiato. Posai il cucito, le mani che mi tremavano.
«Daniele?» sussurrai.
Lui non si mosse. Ma un’altra lacrima seguì la prima. Era lì dentro. Era lì dentro e stava ascoltando.
«Oh, Daniele,» respirai, inginocchiandomi davanti a lui. «Va bene. Va bene essere triste.»
Non emise un suono. Restò immobile, mentre lacrime silenziose uscivano da quegli occhi “ciechi”. Era il primo segno di vita. La prima crepa nel ghiaccio.
Da quel momento, tutto cambiò. Era ancora muto, ancora “cieco”, ma era presente.
Cominciai a insegnargli a sentire il mondo. Gli mettevo una pigna in mano. «La senti?» dicevo. «È di pino. È ruvida, ma forte. Profuma di vaniglia e di sole.»
Gli guidavo le mani dentro l’impasto del pane. «Questa è vita,» gli dicevo. «È calda e morbida, e sta crescendo.»
Lo portavo fuori, descrivendo ogni passo. «Siamo sul portico, Daniele. Il legno sotto i piedi è vecchio. Ascolta. Senti le cince? Sembra che dicano il loro nome: ci-ci-ci.»
Stava imparando a vedere con le mani, con le orecchie, con il naso. Piano piano, con fatica, tornava alla vita.
E poi, il settimo giorno, il mondo finì.
Non fu un rumore che riconoscevo. Era un ronzio basso, meccanico. Non era il nostro vecchio furgone. Era un’altra bestia.
Guardai dalla finestra. E il sangue mi diventò ghiaccio.
Un grande SUV nero, lucido come un coltello d’ossidiana, stava salendo sulla nostra strada sterrata. Dietro ce n’era un altro.
Si fermarono, e le portiere si aprirono.
Parte 2
Dal primo scesero due uomini. Indossavano completi neri. Non solo belli. Impeccabili. Occhiali da sole. Auricolari. Il tipo di uomini che vedi nei film e speri di non incontrare mai nella realtà.
Dal secondo scese un terzo uomo. Più anziano, il completo grigio, ancora più costoso. Il volto di pietra.
«Nonna,» dissi, con la voce roca. «Vai nella stanza sul retro. Chiudi a chiave.»
«Elisa, cosa…?»
«Ti prego, nonna, adesso!»
Vide la mia faccia, e obbedì.
Presi il vecchio fucile sopra il camino. Era caricato a sale grosso. Faceva male, ma non uccideva.
Uscii sul portico mentre loro si avvicinavano.
«Questa è proprietà privata,» gridai, cercando di tenere fermo il tremore nella voce. Il fucile mi sembrava pesantissimo e inutile.
L’uomo col completo grigio non si fermò. Salì fin quasi al primo gradino, i due uomini in nero ai suoi lati, come due muri. Si tolse gli occhiali da sole. Gli occhi erano dello stesso colore del vestito. Grigio freddo, morto.
«Dov’è?» La sua voce era un ringhio basso. Non una domanda. Un ordine.
«Non so di chi sta parlando,» mentii.
Lui sorrise, ma fu il sorriso più spaventoso che abbia mai visto. Non toccò gli occhi.
«Tu sei Elisa. Vivi qui con tua nonna, che si occupa di “medicine popolari”. Abbiamo seguito il segnale del telefono di mio figlio, che è stato spento. Ma il GPS nella sua scarpa,» si toccò la punta del proprio mocassino, «ha indicato esattamente questa posizione per 72 ore. Quindi lo chiederò un’ultima volta. Dov’è mio figlio, Daniele?»
Il cuore mi si fermò un istante.
Daniele.
Capivo: quell’uomo era uno di quei ricchi di cui senti parlare al telegiornale, il proprietario di un grande gruppo finanziario, uno che costruisce palazzi di vetro dove prima c’erano boschi.
Guardai dentro, attraverso il vetro. Daniele era seduto vicino al fuoco, una piccola sagoma avvolta nella coperta. Sembrava in ascolto, la testa leggermente inclinata.
«È un paziente,» dissi, la voce tremante ma ostinata. «Era in ipotermia. E… non sta bene.»
«Mio figlio non è ‘non sta bene’,» ringhiò l’uomo. «È ‘non responsivo’. Così lo chiamano gli specialisti che pago una fortuna. E tu pensi di poterlo curare con cosa?» Fece un gesto verso la baita, verso le erbe appese. «Terra e foglie? Stregoneria?»
Le guardie fecero un passo sul portico. Io alzai il fucile. «Fermi!»
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