Lui rise. Una risata breve, dura. «Ascolta, ragazza. Se voglio, domani qui ci sono carabinieri, giudici, avvocati. Posso accusarti di sequestro di persona. E credimi, so come si fa a muovere le persone giuste.»
Fece un passo più vicino. «Ridammi mio figlio. Oppure la prossima volta non verranno uomini in giacca e cravatta, ma gente in uniforme, con un mandato, e non saranno gentili come me.»
Ero in trappola. Una ragazza di ventisei anni con un fucile caricato a sale davanti a un uomo che poteva comprarsi mezzo Paese.
«Ha paura,» sussurrai in un ultimo, disperato tentativo. «Non potete semplicemente portarlo via. Sta… sta appena cominciando a tornare.»
«È un bene danneggiato,» disse l’uomo, con voce piatta. «Lo trasferiscono in una nuova struttura. Una clinica in Svizzera. Hanno… metodi diversi.»
Una delle guardie mi passò accanto, spingendomi come se fossi aria. Sentii nonna urlare dalla stanza sul retro. La guardia spalancò la porta della baita.
«No!» urlai.
Corsi dentro. L’uomo, una montagna, era già accanto a Daniele. Stava staccando dal suo cinturone un apparecchio medico pieno di lucine.
«Parametri stabili, signore,» disse, parlando in un microfono.
Il padre entrò, le scarpe lucide che ticchettavano sul nostro vecchio pavimento di larice. Si guardò attorno con disgusto. «Patetico.»
Si avvicinò a Daniele. Non si inginocchiò. Lo guardò solo dall’alto. «Daniele. Alzati. Andiamo via.»
Daniele, ovviamente, non si mosse. Si era di nuovo irrigidito, ma stavolta era un’altra cosa. Era il terrore di un coniglio sotto l’ombra del falco.
La guardia allungò le mani, impersonali, dure. Lo avrebbe semplicemente… impacchettato.
«No!» gridai. «Lo fate male! Rovinarete tutto! Lasciate che lo prenda io.»
Il padre mi fissò. Poi fece un cenno. Una volta sola.
Mi inginocchiai davanti al bambino. Gli uomini, il padre, il mondo freddo e duro sparirono. Eravamo solo io e lui.
Gli presi le mani piccole e fredde. «Daniele,» sussurrai, con la voce spezzata. «Questi uomini… sono qui per riportarti da tuo padre.»
Non si mosse.
«Io… io non posso fermarli.» Le lacrime mi scendevano sul viso. «Ma voglio che tu sappia una cosa. Sei forte. Quella luce che hai sentito… è tua. Nessuno può portartela via. Il mondo è pieno di colori, Daniele. È pieno di vita. Non lasciarglielo dimenticare.»
Stringevo le sue mani. «So che sei lì dentro. E so che hai paura. Ma devi essere coraggioso.»
La guardia si schiarì la gola. «Signore, dobbiamo andare.»
Il padre annuì. «Portatelo.»
La guardia sollevò Daniele, coperta e tutto. Era solo un fagotto molle tra le braccia di un gigante.
Si mossero verso la porta. Io piangevo, impotente.
Mentre mi passavano accanto, Daniele, che non si era mosso né aveva parlato per una settimana, all’improvviso girò la testa verso di me. Gli occhi “ciechi” erano spalancati. Ancora sfocati, ma… in cerca.
E poi, la sua voce. Un sussurro piccolo e arrugginito, che quasi non sentii.
«Io… io vedo…» balbettò.
Il mio cuore si fermò. Anche il padre si fermò. Anche le guardie.
«Cos’ha detto?» chiese l’uomo.
Il volto di Daniele era rivolto verso di me, verso la lampada che avevo acceso sul tavolo. La luce calda, gialla.
I suoi occhi, per la prima volta, tremarono. E poi… misero a fuoco. Sulla lampada.
«Vedo…» sussurrò ancora, stavolta più forte. «Vedo la luce.»
Dalla gola dell’uomo uscì un suono strozzato. Forse un singhiozzo.
La guardia guardò solo il suo capo, in attesa di ordini.
L’uomo si ricompose all’istante. Il volto tornò di pietra. «Una coincidenza. Un riflesso. Portatelo in macchina.»
E così, se ne andarono.
Uscirono dalla porta, lo misero nel grande SUV nero e scomparvero giù per la nostra strada di ghiaia, lasciando dietro di sé una nuvola di polvere e silenzio.
Caddi in ginocchio sul pavimento. Nonna riuscì finalmente ad aprire la porta e corse da me, stringendomi mentre piangevo.
La baita sembrava vuota. La lampada che lui aveva visto era ancora accesa sul tavolo, ma il mondo non era mai stato così buio.
Passò un anno. 365 giorni.
La baita era troppo silenziosa. Ogni volta che sentivo un ramo spezzarsi, pensavo fosse lui. Ogni volta che, lontano, arrivava il rumore di un motore, il cuore mi balzava in gola, pensando al grande SUV nero che tornava.
Entrai in un posto scuro dentro di me. Dubitavo di tutto. A che serviva “curare” se il mondo poteva entrare e portarsi via chi volevamo salvare?
Le parole di nonna erano sempre le stesse: «Non l’hai tradito, Eli. Gli hai dato un fiammifero in una grotta buia. Cosa ne farà di quella luce lo decide lui. E il buon Dio.»
Ma io mi sentivo come se l’avessi abbandonato. Gli avevo mostrato una scintilla, e poi l’avevano trascinato di nuovo nel nero. Non sapevo se fosse vivo. Non sapevo se fosse davvero in Svizzera, o chiuso in una stanza sterile da qualche parte, o se quella luce si fosse spenta per sempre.
La vita andava avanti. Le stagioni giravano. Il freddo tagliente di quel ottobre divenne la neve profonda dell’inverno, che si sciolse nel verde esplosivo della primavera di montagna. L’estate fu calda e secca. E poi, di nuovo, ottobre.
L’anniversario.
Stavo spaccando legna, sfogando la mia paura e il mio dolore su quei tronchi di pino. Tac. Tac. Tac.
Sentii arrivare una macchina.
Mi fermai. L’ascia ancora in mano.
Non era un rombo. Era un ronzio più lieve.
Una macchina stava salendo per la nostra strada. Un’auto elettrica blu. Modesta, silenziosa, sporca di fango.
Si fermò proprio dove un anno prima si era fermato il SUV.
La portiera del conducente si aprì, e un uomo scese.
Era lui. Il padre.
Ma non era lo stesso. Il completo grigio non c’era più. Indossava un paio di jeans e una camicia semplice, sbottonata ai polsi. Il volto era stanco. Sembrava più vecchio. Sembrava… umile.
Io non mi mossi. Restai lì, con l’ascia in mano.
Mi vide. Alzò una mano, con il palmo verso di me. «Elisa. Ti prego. Sono venuto in pace.»
Non abbassai l’ascia. «Hai cinque secondi per dirmi perché sei sulla mia proprietà, prima che chiami i carabinieri. E stavolta non è caricato a sale.»
Fece una smorfia. «Me lo merito. Mi merito… tutto. Non sono qui per comandare. Sono qui per chiederti scusa.»
Risi secco, amaro. «Scusa? Non puoi semplicemente chiedere scusa.»
«Hai ragione,» disse piano. Guardò a terra. «Sono stato… un mostro. Ero un padre terrorizzato, e ho agito come un bruto. L’ho portato via da qui.»
«Dov’è?» domandai, con la voce rotta. «Sta bene?»
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