«Sì,» disse. E stavolta, fu la sua voce a spezzarsi. Una lacrima gli scese sulla guancia. La asciugò in fretta, quasi arrabbiato con se stesso. «Sì. Sta bene.»
«La clinica in Svizzera… è stato un disastro,» continuò, fissando gli alberi. «Stanze sterili, medicine, analisi su analisi. L’hanno messo in vasche di isolamento sensoriale. Hanno provato a ‘forzare’ un cambiamento. È peggiorato. Non mangiava più. Si spegneva. Mi hanno detto di prepararmi al peggio.»
Le gambe mi si fecero molli. Appoggiai l’ascia alla catasta di legna.
«Una notte,» disse, «ero seduto accanto al suo letto. Aspettavo… la fine. E mi sono ritrovato a canticchiare. Non so nemmeno perché. Una melodia scema.»
«È entrata un’infermiera. Mi ha chiesto: “Cos’è quella canzone?” Io ho detto: “Non lo so. Mi viene e basta.” E lei mi fa: “Il suo cuore sta cambiando ritmo. Anche le onde del cervello…” Indicava il monitor. “Continua.”»
«Così ho continuato a canticchiare. Tutta la notte. La mattina dopo, Daniele… mi ha stretto la mano.»
Si fermò un attimo.
«Non capivo. Poi… mi è venuto in mente. Nel viaggio dalla tua baita all’aereo… tu canticchiavi. L’ho sentito nella registrazione delle telecamere della sicurezza. Tu gli cantavi quella stessa melodia mentre ti inginocchiavi davanti a lui.»
Non me n’ero nemmeno resa conto. Era un vecchio motivo popolare che nonna canticchiava da sempre.
«Ho… ho licenziato tutti,» disse l’uomo. «Medici svizzeri, specialisti, tutti. L’ho riportato a casa. Non nell’attico di vetro in città. Ho comprato una casa in campagna. Con… alberi. E… gli ho solo parlato. Come facevi tu. Gli descrivevo i colori. Gli alberi. Le cince…»
Mi guardò, gli occhi imploranti. «Ci sono voluti… sei mesi. Ma ora, Elisa… è tornato. Daniele è tornato.»
«E… gli occhi?» sussurrai.
«I medici… lo chiamano ‘disturbo neurologico funzionale’. Una cosa psicologica. Il trauma per la morte di sua madre…» la voce gli si incrinò, «…ha fatto sì che il cervello spegnesse la vista. Come un fusibile saltato. Dicevano che forse non avrebbe mai più visto.»
«Ma…?» lo incalzai, trattenendo il fiato.
«Ma…» sorrise. Un sorriso vero, stavolta. «È testardo. Come qualcun’altra che conosco.»
Si girò verso la macchina. «Puoi scendere, adesso, figlio mio.»
La portiera del passeggero si aprì.
E lui scese.
Non era più il bambino piccolo e fantasma. Era più alto. Le guance avevano colore. Indossava una maglietta rossa semplice e un paio di jeans.
Si fermò accanto alla macchina, guardandosi intorno. Gli occhi, chiari e vivi, scorsero gli alberi, la baita… e poi si posarono su di me.
Un sorriso enorme gli esplose in faccia.
«Elisa!» gridò.
E si mise a correre.
Corse sullo sterrato, le gambe che volavano, e non mi abbracciò soltanto. Mi si lanciò addosso, stringendomi la vita così forte che quasi mi fece cadere.
«Ti vedo!» urlò contro la mia giacca, la voce soffocata. «Ti vedo! Hai la giacca blu!»
Sì. Indossavo una vecchia giacca di jeans, sbiadita.
Scoppiai in lacrime, stringendolo, affondando il viso nei suoi capelli. Era caldo. Era vero. «Stai vedendo davvero,» singhiozzai. «Stai vedendo davvero.»
«Sì!» disse, scostandosi un poco, il viso che brillava. «Vedo gli alberi! E il fumo dal camino! E la nonna! È alla finestra!»
Alzai lo sguardo. Davvero, nonna era alla finestra, con le lacrime che le rigavano il viso.
Il padre si avvicinò, le mani in tasca. Sembrava… in pace.
«Non ha smesso un secondo di parlare di te,» disse. «Voleva tornare qui. Doveva. Per… ringraziarti.»
«Sono io che devo ringraziare,» dissi, asciugandomi gli occhi, la mano ancora sulla testa di Daniele.
«Sono venuto anche per offrirti un lavoro,» disse l’uomo, un po’ impacciato. «Sto… sto creando un nuovo tipo di centro. Un posto di cura. Ispirato a… questo.» Fece un gesto verso la baita, il bosco. «Lontano dalle stanze fredde. Più umano. Niente ‘casi’. Solo… persone. Voglio che lo diriga tu.»
Guardai la baita. Guardai nonna. Guardai Daniele.
Sorrisi. «Grazie, signor…» esitai un attimo e poi dissi solo: «…signore. È un’offerta incredibile. Ma non posso.»
Sembrò colpito. «Ma… perché? Ti pagherò quello che vuoi.»
«Il mio posto è qui,» dissi, stringendo la spalla di Daniele. «Con quelli che hanno bisogno di questo, e non possono pagarsi una clinica in Svizzera. Con quelli che il mondo dimentica.»
Lui mi fissò a lungo. Poi annuì. Capiva.
«Allora… finanzierò questo,» disse. «Il tuo lavoro. Qui. Qualunque cosa ti serva. Un tetto nuovo. Un camion nuovo. Una scorta di erbe per tutta la vita.»
«Ce la caviamo,» disse nonna, uscendo sul portico con un vassoio in mano. «Ma un tetto nuovo lo accettiamo volentieri. E adesso resti a cena.»
Non era una domanda.
Quella sera mangiammo tutti e quattro al nostro tavolo piccolo. Un miliardario, un ragazzo “miracolato”, un’erborista anziana e io.
Quando il sole cominciò a calare, Daniele mi afferrò la mano. «Vieni!»
Mi trascinò fuori, sul portico. Il cielo stava diventando di quel viola profondo che si vede solo in montagna.
«È il mio momento preferito,» sussurrò, indicando il cielo. «Ti sbagliavi sull’alba.»
«Ah sì?» risi.
«Già. Il tramonto è il migliore. Non è solo rosa. È… è tutto.»
Aveva ragione. Lo era.
Mi promise che sarebbe tornato ogni estate. E lo ha fatto. Ora ha quattordici anni. Chiama mia nonna “Nonna”. Mi aiuta a controllare le trappole nel bosco.
In paese, la storia si è sparsa. Mi chiamano ancora la “ragazza del miracolo”. Ma io non lo sono. Non ho fatto nessun miracolo.
Ho solo… ascoltato. Ho offerto un po’ di calore, un po’ di luce, in un mondo che per lui era diventato freddo e buio.
A volte, è tutta la magia di cui abbiamo bisogno.






