Mi chiamo Elio. Ho 67 anni, sono un termoidraulico specializzato, ora in pensione.
Per più di quarant’anni ho vissuto in cantine umide e cantieri polverosi. Ho posato chilometri di tubi, riparato caldaie e fatto in modo che nelle case della gente uscisse acqua calda dal rubinetto.
Nessuno mi ha mai chiesto in quale prestigiosa università mi fossi laureato. L’unica domanda era sempre e solo una: “Elio, per favore, riesci a far ripartire la caldaia prima che i bambini congelino stasera?”
Lo scorso autunno sono stato invitato alla scuola elementare di mia nipote, Viola, per la “Giornata dei Mestieri”.
La stanza era piena di dottori, avvocati, un architetto e un ragazzo del settore IT con un computer portatile che costava quanto la mia vecchia auto. Io ero l’unico con la giacca da lavoro, quella blu, e le mani segnate da decenni di fatica.
Quando è arrivato il mio turno, mi sono alzato e ho detto: “Io non ho mai fatto l’università. Non ho ‘pezzi di carta’ appesi al muro. Ma ho contribuito a costruire le scuole dove studiate, le case di riposo per i vostri nonni e il municipio della nostra città. E quando nell’inverno del ’96 saltò l’impianto di riscaldamento dell’Ospedale Civile, non c’era nessun manager in giacca e cravatta in corsia alle tre di notte. C’ero io, giù nel locale caldaie, con una torcia in bocca, a lavorare per garantire che i pazienti ai piani di sopra non restassero al freddo.”
I bambini, che prima ridacchiavano un po’, si sono zittiti.
Hanno iniziato a farmi domande vere: “Come si impara?”, “Si guadagna bene?”, “Ti sei mai scottato?” (Sì, e ho ancora la cicatrice sul braccio).
Dopo il suono della campanella, un ragazzino è rimasto indietro.
Magrolino, capelli rossi arruffati, un maglione un po’ troppo grande per lui. Ha mormorato, quasi vergognandosi: “Mio papà fa il muratore. Molti ridono di lui perché torna a casa sporco di calce e non ha il diploma… Ma è l’unico della famiglia che sa costruire una casa da zero.”
L’ho guardato dritto negli occhi e gli ho detto: “Ascoltami bene, ragazzo. Tuo padre è un eroe. Quando il tetto perde o un muro crolla, non serve a nulla chiamare un professore di filosofia. Serve un muratore. Serve tuo padre.”
Il problema, qui da noi, è che parliamo dei lavori manuali come se fossero un piano B, un “rifugio” per chi non aveva voglia di studiare. Ma senza gli artigiani, l’Italia si ferma. A cosa serve il miglior ingegnere civile se non c’è nessuno che sappia impastare il cemento, posare i cavi o saldare i tubi?
Quattro anni dopo il diploma, alcuni hanno una laurea e magari cercano ancora uno stage non pagato. Altri hanno imparato un mestiere: hanno un lavoro sicuro, dignità, indipendenza economica e una competenza che servirà sempre, ovunque. Perché quando la caldaia si rompe a gennaio, nessuna laurea ti salverà. Ti salverà un tecnico.
Pochi giorni fa ho incontrato la madre di quel ragazzino al mercato rionale. Mi ha fermato e ha detto: “Forse non si ricorda di me, ma lei ha detto a mio figlio che fare l’artigiano è importante. Da quel giorno, il sabato mattina chiede di andare in cantiere con suo padre. Per la prima volta dopo anni, lo vedo fiero di qualcosa.”
Ecco il punto: il rispetto cambia la vita. Non si tratta solo di tubi o mattoni. Si tratta di orgoglio. Di senso. Di creare qualcosa che resta, molto dopo che hai finito il turno.
Perciò, smettiamola di chiedere ai giovani solo: “A quale facoltà ti iscriverai?”.
Chiediamo anche: “Quale strada vuoi percorrere?”.
E se un ragazzo risponde: “Voglio fare il falegname” o “Voglio diventare elettricista”, non storcete il naso.
Sorridete e ditegli: “Grande. Abbiamo bisogno di mani d’oro come le tue.”
Perché ne avremo bisogno. Più che mai. E credetemi, quando l’acqua smetterà di scorrere o il riscaldamento si fermerà, sarete felici che ci siano loro.
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