Una lezione di vita toccante che ci insegna a non dare mai per scontato il tempo

Sono passati dodici anni da quel pomeriggio nella classe di Viola. Dodici anni sono un soffio quando sei giovane, ma quando hai la mia età, sono un’eternità.

Le mie ginocchia, che un tempo si piegavano senza protestare sotto i lavandini e dentro i cavedi, ora scricchiolano come vecchie cardini arrugginiti. La vista si è annebbiata quel tanto che basta da rendermi difficile distinguere la filettatura di un dado da mezzo pollice senza gli occhiali.

Ho smesso di lavorare definitivamente tre anni fa. Ho venduto il furgone, ho regalato la mia saldatrice a un nipote che non la userà mai e ho appeso la giacca blu nell’armadio. Pensavo che il silenzio sarebbe stato riposante.

Invece, il silenzio di un artigiano in pensione è pesante. Ti mancano le chiamate urgenti, ti manca l’odore della canapa e della pasta verde, ti manca persino il mal di schiena a fine giornata, perché quel dolore ti ricordava che eri utile. Che servivi a qualcuno.

Viola è cresciuta. Si è laureata in Economia, una ragazza brillante. Alla sua festa di laurea c’erano tutti: parenti, amici, colleghi. Si parlava di “start-up”, di “marketing digitale”, di “asset”. Io sorridevo, mangiavo la torta e annuivo, ma mi sentivo un fossile in un museo di astronavi.

Nessuno parlava di come si costruisce il tavolo su cui era poggiata la torta, o di chi aveva installato l’aria condizionata che ci permetteva di stare lì dentro senza soffocare a luglio. Il mondo sembrava aver dimenticato definitivamente la materia per innamorarsi dell’idea.

Poi è arrivato lo scorso dicembre. Un inverno rigido, di quelli che ti entrano nelle ossa e non se ne vanno più.

Era la vigilia di Natale. Il telefono di casa ha squillato alle quattro del pomeriggio. Era Don Luigi, il parroco della chiesa del quartiere, dove si trova anche la mensa per i poveri e il piccolo dormitorio che ospita una decina di senzatetto.

“Elio, perdonami se ti disturbo,” la sua voce tremava, e non solo per il freddo. “La caldaia è morta. Abbiamo provato a riavviarla, ma c’è fumo nero e un rumore terribile. Qui ci sono tre gradi. Stasera abbiamo la cena per i bisognosi e gli anziani del quartiere. Se non riparte, dovrò mandare tutti via.”

Ho sentito quella vecchia fitta allo stomaco. L’adrenalina del mestiere. “Don Luigi, io… non ho più gli attrezzi. Non ho più la forza,” ho risposto, guardandomi le mani tremanti. “Ho chiamato tutti, Elio. È la vigilia. Nessuno risponde. Le ditte grandi hanno la segreteria telefonica. I tecnici sono a casa con le famiglie. Sei l’unico che conosco che capisce quell’impianto vecchio come Noè.”

Non potevo dire di no. Ho preso la mia vecchia cassetta degli attrezzi, quella piccola che tengo in garage per le riparazioni domestiche, mi sono messo il cappotto pesante e sono andato.

La sala caldaie della parrocchia era esattamente come la ricordavo: un antro buio, odoroso di gasolio e umidità. La vecchia caldaia a basamento, una bestia di ghisa degli anni ’80, taceva come una tomba.

Mi sono inginocchiato, ignorando il dolore alle articolazioni. Ho smontato il bruciatore. Era un disastro. L’ugello era intasato, la fotocellula nera di fuliggine, ma il problema vero era la pompa del gasolio. L’alberino era bloccato.

Ho provato a sbloccarlo. Ho spinto, ho tirato, ho usato tutto il lubrificante che avevo. Niente. Le mie mani, quelle mani di cui ero stato così fiero, non avevano più la forza di una volta. Ho provato ancora, sudando freddo nonostante il gelo, finché la chiave inglese non mi è scivolata, sbucciandomi le nocche.

Mi sono seduto su una vecchia cassa di legno, col fiato corto, guardando le mie dita sporche di sangue e grasso. Per la prima volta in vita mia, mi sono sentito sconfitto. Non ero più Elio il mago delle caldaie. Ero solo un vecchio inutile in una cantina gelida.

“Ha bisogno di una mano, maestro?”

Una voce ha risuonato dall’ingresso delle scale. Mi sono voltato. Sulla soglia, in controluce, c’era una sagoma alta e robusta. Indossava una tuta da lavoro grigia e arancione, pulita ma vissuta, e scarponi antinfortunistici infangati. Teneva in mano una lampada a led professionale e una valigetta rossa.

“Chi sei?” ho chiesto, strizzando gli occhi.

Il giovane è sceso, passo sicuro, e ha illuminato il locale. Quando la luce gli ha colpito il viso, ho visto una barba rossa ben curata e, sopra di essa, due occhi vivaci e una zazzera di capelli color rame che spuntava da sotto il berretto di lana.

“Mi ha chiamato mia madre,” ha detto lui, posando la valigetta. “Ha saputo che Don Luigi era nei guai e che lei stava venendo qui. Mi ha detto: ‘Corri, Elio non può fare tutto da solo’.”

L’ho guardato meglio. C’era qualcosa di familiare in quel cipiglio concentrato, nel modo in cui muoveva le mani. “Non si ricorda di me, vero?” ha sorriso, aprendo la valigetta.

Dentro c’era un paradiso di attrezzi: chiavi dinamometriche, analizzatori di fumi digitali, ma anche vecchi cacciaviti col manico in legno, ben tenuti. “Sono Marco. ‘Quel ragazzino coi capelli rossi’. Scuola elementare Marconi. Dodici anni fa.”

Il cuore mi ha saltato un battito. “Il figlio del muratore,” ho sussurrato.

“Già. Il figlio del muratore,” ha risposto lui, mentre si chinava verso la caldaia con una naturalezza disarmante. “Che poi, papà è andato in pensione l’anno scorso. La schiena non reggeva più. Ma è felice.”

Senza aspettare istruzioni, Marco ha capito subito il problema. “Pompa grippata, eh? Classico di questi modelli quando il gasolio è sporco.” “Non ho la forza per sbloccarla,” ho ammesso, ingoiando l’orgoglio. È difficile, sapete? È difficile ammettere di non essere più l’uomo che eri.

Marco non mi ha guardato con pietà. Mi ha guardato con rispetto. “Non si preoccupi. Lei mi dice cosa fare, io sono le braccia. La mente è la sua.” Non era vero, ovviamente. Sapeva benissimo cosa fare. Ma me lo ha lasciato credere.

Abbiamo lavorato fianco a fianco per un’ora. Io gli passavo gli attrezzi, gli indicavo le viti nascoste che solo chi ha montato quelle macchine trent’anni fa conosce, e lui eseguiva con una precisione chirurgica.

Mentre lavoravamo, il silenzio è stato rotto solo dal tintinnio del metallo. “Sai,” ha rotto il ghiaccio lui, mentre puliva il filtro, “dopo quel giorno a scuola, le cose sono cambiate. Non solo per me. Anche per mio padre.”

“Ah sì?”

“Sì. Tornai a casa e gli raccontai tutto. Gli dissi che un signore aveva detto che lui era un eroe. Papà… beh, papà non è uno che parla molto. Si mise a piangere mentre mangiava la minestra. Da quel giorno, smise di cambiarsi in garage prima di entrare in casa. Entrava con la tuta sporca di calce, a testa alta.”

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