Una madre morente, un bambino incatenato e gli “angeli col furgone” che hanno cambiato il suo destino

Eravamo andati lì per controllare dei furti di rame.

Qualcuno stava smontando cavi e tubi dal vecchio condominio di via del Mulino, lo stesso stabile che il nostro gruppo di volontari aveva ripulito mesi prima per farci il doposcuola della parrocchia. I ragazzi del quartiere ci avevano avvisati che si vedeva spesso una luce al piano terra, dove non avrebbe dovuto esserci nessuno.

Mi chiamo Giovanni “Orso” Conti. Sessantadue anni, ex muratore, ora presidente del gruppo di volontariato “San Michele”. Gente normale: pensionati, operai, qualche barista, un paio di ex camionisti. Giriamo con furgoni scassati e vecchie utilitarie piene di coperte, pacchi alimentari e attrezzi.

In quartiere ci chiamano in tanti modi: “i matti del gilet arancione”, “gli zii del rione”, “gli angeli del cassonetto” perché rovistiamo nei mobili vecchi per recuperarli. Ci ridono dietro, ci criticano, ma quando c’è bisogno, alla fine, chiamano sempre noi.

Quella sera eravamo in cinque. Io, Marco detto “Lupo”, Enzo “Camallo”, Beppe “Radio” e don Paolo, il parroco, che con la scusa di “venire a vedere” non ci lasciava mai soli.

Il portone del condominio era chiuso con una catena arrugginita, ma una finestra del pianterreno era socchiusa. Da dentro veniva un rumore leggero, un tintinnio metallico, come qualcosa che urtava piano contro il muro.

«Hai sentito?» sussurrò Lupo.

Annuii. «Non dovrebbe esserci nessuno qui dentro.»

Spingemmo la finestra, entrò una folata d’aria fredda e di muffa. Lupo passò prima, io subito dietro. Il corridoio puzzava di umido, sigarette e vecchio. Al terzo passo sentii chiaramente un rumore più forte, poi una voce sottilissima.

Un colpo di cuore.

Aprii la porta dell’appartamento da cui veniva quel suono.

Dentro, al centro di un soggiorno spoglio, seduto sul pavimento, c’era un bambino.

Avrà avuto sette anni, forse otto, ma sembrava più piccolo. Magrissimo. Le ginocchia a punta, un maglione troppo grande, le mani nere di polvere.

E una catena attaccata al termosifone, chiusa attorno alla sua caviglia.

Per un attimo nessuno di noi parlò. Si sentiva solo il ronzio del neon difettoso nel corridoio.

«Madonna santa…» mormorò Camallo dietro di me. «È…?»

«È vivo,» dissi, già avanzando. Sentivo il cuore battermi nelle orecchie. «Ehi, campione. Ciao. Non ti facciamo niente, va bene?»

Il bambino non alzò lo sguardo subito. Continuò a disegnare cerchi nella polvere col dito, come se cinque uomini in giubbotto catarifrangente non fossero appena entrati nella stanza. Intorno a lui, sul pavimento, c’erano bottiglie d’acqua vuote e qualche confezione di cracker strappata.

Da giorni lì dentro, capii.

Poi vidi il biglietto.

Era fissato con nastro adesivo alla sua felpa, sul petto. La scrittura tremolante, ma leggibile.

“Per favore, prendetevi cura di mio figlio. Mi dispiace. Ditegli che la mamma lo ha amato più di tutte le stelle.”

Mi si chiuse la gola.

«Come ti chiami?» chiesi, piegandomi a livello dei suoi occhi.

Lui finalmente mi guardò. Occhi grandi, castani, troppo seri per un bambino.

«Luca,» rispose piano. «La mamma vi ha mandati?»

Quella frase. “La mamma vi ha mandati”. E il biglietto parlava al passato. “Lo ha amato”, non “lo ama”.

Sentii un nodo salire dallo stomaco.

Sorrisi, anche se mi tremavano le labbra. «Sì, Luca. La mamma ci ha mandati.» Mentii. Ma in quel momento era l’unica risposta possibile.

«Siamo amici. Siamo quelli che portano i pacchi di cibo in giro. Hai mai visto i nostri furgoni bianchi?»

Lui annuì appena. «La mamma diceva che eravate gli angeli col furgone. Che il motore faceva più rumore delle ali.»

Mi scappò quasi da ridere e da piangere insieme. Angeli col furgone. E noi che ci lamentavamo sempre perché i mezzi facevano troppo casino.

«Allora sì,» dissi piano. «Siamo i tuoi angeli.»

Mi avvicinai alla catena. Non era troppo stretta, ma la pelle sotto era arrossata.

«Chi ha un tronchese?» chiesi senza voltarmi.

«Ce l’ho io in macchina,» rispose Radio, già correndo verso il corridoio. Li teniamo sempre per tagliare vecchie reti e lucchetti arrugginiti.

Luca ci seguiva con lo sguardo, attento.

«La mamma ha detto di aspettare qui,» spiegò. «Ha detto che sarebbe arrivata gente buona. Non dovevo andare via, neanche se avevo paura.»

«Hai avuto molta paura?» chiesi.

«All’inizio sì,» mormorò. «Poi ho pensato alle stelle. La mamma diceva che quando non sapevo cosa fare dovevo guardare in alto e pensare alle stelle. Ma da qui non si vedono. Il soffitto è brutto.»

Il soffitto era macchiato di umidità. Una ragnatela pendeva da un angolo.

Mi si strinse qualcosa dentro.

Radio tornò con il tronchese. In due movimenti la catena fu spezzata. Luca si alzò in piedi, barcollando, come se avesse dimenticato come si faceva.

Lo presi in braccio. Pesava niente.

«Lo portiamo subito in ospedale,» disse don Paolo, già con il telefono in mano per chiamare il 118. «Ma, Orso, prima…»

Sapevo cosa stava per dire. Lo stesso pensiero che avevo io.

«Prima controlliamo il resto della casa,» conclusi.


La trovammo nel bagno in fondo al corridoio.

Stesa per terra, il corpo già freddo. Nessun segno di violenza, solo una scatola di farmaci aperta e una calma inquietante sul viso. Indossava un vestito semplice, pulito, come se avesse voluto presentarsi in ordine al suo ultimo appuntamento.

Sul pavimento, vicino alla mano, un’altra busta. Sopra c’era scritto: “A chi troverà mio figlio”.

La raccolsi con le dita che mi tremavano. Sentivo Luca in braccio a don Paolo, nel soggiorno, che chiedeva sottovoce: «Dov’è la mamma? Sta arrivando?»

Aprii la busta.

“La mia nome è Elena Rossi. Mio figlio si chiama Luca, nato il 12 aprile 2017. Suo padre è in carcere per quello che ci ha fatto. La sua famiglia mi ha voltato le spalle quando ho denunciato. Dicono che esagero, che la colpa è mia.

Ho un tumore. I medici hanno fatto quello che potevano, ma è tardi. Posso essere seguita in ospedale, ma non ho più nessuno che possa tenere Luca. Ho paura che finisca in comunità e che poi la famiglia di suo padre chieda l’affido. Sono persone violente. Questo bambino si è già nascosto troppo dietro le sedie.

Ho guardato fuori dalla finestra per mesi. Ho visto voi del gruppo San Michele passare con i furgoni. Vi ho visto portare la spesa agli anziani, sistemare la serranda del bar di Alba senza chiedere soldi, accompagnare il signor Carlo alle visite.

Ho visto come parlate con i ragazzi difficili, come li ascoltate. Ho visto che restate, anche quando gli altri scappano.

Clicca il pulsante qui sotto per leggere la prossima parte della storia. ⏬⏬

Scroll to Top