Non siete santi. Siete gente vera, con le facce stanche e le mani sporche. Ma siete buoni. Buoni davvero, non solo a parole.
Questa scelta che faccio è sbagliata. Lo so. Ma non riesco a immaginare mio figlio che torna in quelle mani che ci hanno rotto le ossa e l’anima.
La catena è solo perché non scappi in strada mentre dormo per sempre. Gli ho lasciato acqua e cibo per qualche giorno. Sapevo che prima o poi qualcuno avrebbe sentito qualcosa in questo stabile vuoto. Spero siate voi.
Vi chiedo una cosa sola: non lasciatelo andare con la famiglia di suo padre. Non lasciate che diventi come loro. Ditegli che la mamma è andata a preparare un posto per lui in cielo. Ditegli che lo ho amato più di tutte le stelle del cielo di agosto sopra la nostra città.
Diteglielo ogni giorno, finché non vi crede.
Mi dispiace. Dio mi perdoni. Ma morire sapendo che Luca è con persone che ho scelto io è l’unico modo che ho trovato per dargli una speranza.
Salvate il mio bambino.
Elena.”
Lessi le ultime righe con la vista appannata. Passai la lettera a Lupo senza dire nulla.
«Orso?» chiese piano. «Che facciamo?»
Mi asciugai gli occhi con il dorso della mano. «Facciamo quello che ci chiede. Salviamo suo figlio.»
In ospedale fu un inferno di domande.
Ambulanze, medici, infermieri, poi i carabinieri, poi i servizi sociali del Comune. Luca non mi aveva più mollato la mano dal momento in cui l’avevo preso in braccio. Quando cercarono di portarlo in un’altra stanza per le visite, iniziò a urlare.
«Per favore!» piangeva. «Per favore, starò buono! Non lasciarmi! La mamma ha detto che eravate angeli! Gli angeli non vanno via!»
Una assistente sociale, una donna sui cinquanta con occhiaie profonde, mi prese da parte.
«Signor Conti, capisco il legame che si è creato, ma…»
«Ha letto il biglietto della madre?» chiesi.
«Il nostro lavoro segue regole precise. Il bambino ha ancora dei parenti. La famiglia paterna ha già telefonato. Hanno il diritto di…»
«La madre ha scritto chiaramente che ha paura di loro.»
«Lo capisco, ma senza documenti legali, senza una richiesta formale…»
In quel momento arrivò una troupe di una emittente locale. Qualcuno aveva parlato. La storia del bambino trovato legato in una casa abbandonata con un biglietto sul petto si era sparsa nel reparto come il fumo.
«Possiamo avere una dichiarazione?» chiese il giornalista, il microfono già in mano.
Per un attimo ebbi voglia di mandarli tutti al diavolo. Ma poi pensai a Elena, a quei mesi alla finestra, a come aveva scelto noi guardandoci da lontano.
Guardai la telecamera. «Questo bambino non è un fenomeno da raccontare a cena,» dissi piano, ma con la voce sicura. «Sua madre si chiamava Elena Rossi. Sapeva di morire. Aveva paura che chi gli aveva fatto del male potesse riprenderlo. Così ha guardato fuori dalla finestra e ha scelto noi. Non siamo perfetti, ma facciamo il possibile per chi viene lasciato indietro.»
Alzai il biglietto.
«Qui c’è scritto che ci affida il figlio. Io, personalmente, non ho intenzione di ignorare le ultime parole di una madre.»
«Sta dicendo che non collaborerà con i servizi sociali?» incalzò il giornalista.
«Sto dicendo che collaborerò finché il bene di Luca viene messo al primo posto. E il bene di Luca non è tornare in una casa dove la violenza è normale. Non voglio fare polemica. Voglio solo che si ascolti davvero quello che Elena ha scritto.»
Il giorno dopo, sui social, comparve l’hashtag #SalviamoLuca.
Il biglietto di Elena, anonimo, era finito ovunque. Qualcuno aveva fotografato il pezzo di carta, qualcun altro aveva raccontato quello che era successo in pronto soccorso. In poche ore la storia aveva fatto il giro dei telefoni e delle televisioni.
La famiglia del padre spuntò fuori all’improvviso. Il nonno paterno, Giovanni Ferri, apparve in TV dicendo frasi come “il sangue è sangue” e “ci hanno portato via nostro nipote”. Nessuno ricordava che era stato denunciato due volte per maltrattamenti in famiglia. Nessuno ricordava perché il figlio era in carcere.
Internet, però, ricordava.
Nel giro di tre giorni, un avvocato si presentò al nostro centro con una cartella sotto braccio.
«Mi chiamo Francesca Leoni,» disse. «Dieci anni fa uno dei vostri furgoni mi ha aiutata a scappare da un ex che non accettava la fine della relazione. Mi avete portata in una casa protetta. Non dimentico. Ora tocca a me.»
«Che cosa può fare?» chiesi.
«Può evitare che Luca finisca in un sistema che, a volte, non riesce a proteggere abbastanza. Può chiedere l’affidamento temporaneo a una famiglia affidataria che la madre ha scelto. Cioè voi.»
«Io ho sessantadue anni,» obiettai. «Vivo da solo, ho un gruppo di volontari, non sono certo l’immagine classica di un papà perfetto.»
«Nessuno chiede perfezione,» rispose. «Si chiede una casa sicura, persone oneste, un rete intorno. E questo voi ce l’avete più di tanti altri.»
Il Tribunale per i Minorenni fissò l’udienza dopo due settimane.
Nel frattempo, grazie al lavoro di Francesca, Luca fu affidato temporaneamente a me, con tutta la rete del gruppo San Michele formalmente indicata come sostegno educativo. Io firmai fogli su fogli, corsi da psicologi, incontri con assistenti sociali. Non ero mai stato così stanco in vita mia, e ho lavorato nei cantieri per quarant’anni.
Luca, intanto, cercava di respirare nella nuova vita.
Le prime notti si svegliava urlando. Si sedeva sul tappeto del soggiorno e si avvolgeva una cintura intorno alla caviglia, come una catena improvvisata.
«La mamma ha detto che dovevo stare fermo,» spiegava tra le lacrime. «Se vado via, vi cacciano.»
«Nessuno ci caccia perché tu cammini in casa,» gli rispondevo, tenendolo stretto. «Qui puoi muoverti quanto vuoi. L’unica cosa che non devi fare è avere paura da solo. Se hai paura, mi chiami.»
«Perché la mamma è andata in cielo?» chiese una sera, infilato sotto la mia coperta.
«Perché era molto malata, Luca.»
«Ma i dottori non aggiustano le persone?»
Come glielo spiegavo, che a volte la malattia è più forte delle cure? E che, anche quando le cure ci sono, la solitudine e la paura possono fare più male della chemioterapia?
Respirai piano. «I dottori fanno tutto quello che possono. Ma non sempre è abbastanza. La tua mamma ha fatto la scelta che pensava fosse migliore per te. E adesso tocca a noi farne una migliore ancora.»
«Tu mi aggiusti?» chiese, gli occhi lucidi.
«Io, e tutti gli altri,» dissi. «Ti aggiustiamo piano piano.»
Alla prima udienza, la famiglia Ferri si presentò al completo. Giacche scure, sguardi duri. L’avvocato parlava di “diritto di sangue”, di “nonni pronti ad accogliere il nipote con amore”.
Francesca, invece, chiamò a testimoniare mezzo quartiere.
Il medico che aveva seguito Elena nell’ultimo periodo, il dottor Marchetti, raccontò di come lei parlasse sempre di Luca, mai di sé.
«Era lucidissima,» disse. «Non confondeva le cose, non era fuori di testa. Era una madre disperata che cercava una soluzione in un momento in cui si sentiva senza vie d’uscita. Ha chiesto informazioni sui gruppi di volontariato della zona. Aveva paura che certi parenti potessero riavere il bambino. Ha scelto i signori del San Michele dopo averli osservati per settimane.»
Poi venne la signora Rosa, ottantadue anni, quella a cui avevamo rimesso a posto il tetto della casa.
«Io non ho figli che vengono a trovarmi,» disse, con la sua voce tremante. «Questi uomini mi portano la spesa, mi cambiano la lampadina, ascoltano le mie chiacchiere. Se io avessi dovuto scegliere con chi lasciare un bambino… avrei fatto lo stesso.»
Arrivarono ex ragazzi del quartiere che avevamo aiutato a finire la scuola. Una madre sola che avevamo sostenuto con le bollette. Un signore che avevamo accompagnato per mesi in ospedale quando non poteva più guidare.
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