Una madre morente, un bambino incatenato e gli “angeli col furgone” che hanno cambiato il suo destino

Ognuno raccontava una piccola storia. Sommate tutte, facevano un quadro preciso.

La prova che fece davvero tacere tutti, però, fu un video.

Una telecamera di sicurezza del bar di fronte al condominio di via del Mulino aveva registrato, quattro giorni prima del nostro ritrovamento, l’immagine di una donna affacciata a una finestra del pianterreno.

Elena.

Guardava giù, verso la strada, dove uno dei nostri furgoni distribuiva sacchetti della spesa. Nel video la si vede piangere, asciugarsi gli occhi, tornare più volte alla finestra, restare lì per ore.

Studiare. Valutare.

La giudice, una donna sui sessanta con gli occhiali appoggiati sulla punta del naso, rimase in silenzio per un lungo momento dopo la proiezione.

«Questo tribunale ha visto tanti casi di affido,» disse poi. «Ma raramente una madre che, sapendo di morire, osserva per mesi degli sconosciuti per capire se sono degni di suo figlio.»

Il nonno Ferri si alzò di scatto. «Signora giudice, ma il sangue non conta più niente?»

Lei lo fissò. «Il sangue conta quando porta responsabilità, non quando giustifica violenza,» rispose calma. «Il sangue di suo figlio ha ferito quella donna. Ora il sangue non basta più.»

Poi guardò me.

«Signor Conti, lei ha sessantadue anni, vive modestamente, gestisce un gruppo di volontari. Non è il classico profilo da genitore affidatario.»

«Lo so, signora giudice.»

«Ma è l’uomo che Elena Rossi ha scelto. Ha passato i suoi ultimi giorni a decidere se fidarsi di lei. Non prendo alla leggera il desiderio di una madre che lascia questo mondo.»

Si tolse gli occhiali.

«Stabilisco che Luca venga affidato a lei, con la rete del gruppo San Michele formalmente indicata come sostegno. I servizi sociali seguiranno il percorso, ma questo bambino ha già visto troppi tribunali. Ora ha bisogno di una casa, non di altri corridoi.»

Sentii le gambe cedere per un istante. Francesca mi strinse il braccio sotto il tavolo.

Luca, seduto dietro con un’educatrice, si voltò verso di me.

«Posso venire a casa con te, Orso?» chiese, senza sapere che tutta la sua vita era appena cambiata.

«Sì, campione,» risposi. «Puoi venire a casa.»


Da allora è passato un anno.

Luca a volte ha ancora gli incubi, ma meno. A volte, quando sente il rumore di una catena – anche solo il guinzaglio di un cane – si irrigidisce. Allora gli metto una mano sulla spalla e lui si rilassa piano.

Va a scuola. Prende voti buoni. Ha scoperto che gli piacciono i libri di avventura e il calcio in cortile. Viene in sede con noi a fare i pacchi, si sporca le mani di polvere e ride.

Il gruppo San Michele è diventato la sua famiglia allargata. Quaranta e più “zii” in gilet arancione che gli insegnano tutto: come si cambia una lampadina, come si avvita una vite, come si impasta la pizza. Ognuno ha adottato una piccola cosa di lui: Beppe gli porta i fumetti, Lupo gli ha regalato una bicicletta usata, Camallo gli tiene da parte sempre una focaccia in più.

Luca ha anche una zia di sangue, ora.

La sorella di Elena, Anna, che viveva al nord, lontano. Non si parlavano da anni per colpa di quell’uomo che aveva isolato Elena. Quando ha visto la storia al telegiornale, ha preso il primo treno. Quando ha abbracciato Luca per la prima volta, loro due hanno pianto come se ci fosse voluto un secolo per arrivare a quel momento.

«L’avrei preso io, sai?» mi ha detto Anna. «Se avessi saputo…»

«Non sapeva più di potersi fidare di nessuno,» ho risposto. «Ora voi due avete tempo per recuperare.»

Anna viene una volta al mese. Porta biscotti fatti in casa, racconta di quando Elena era piccola. Luca ascolta con gli occhi spalancati.

«Sembrava me?» chiede sempre.

«Quando ridi così,» rispondo io, «sì. Le assomigli tantissimo.»


Un giorno la maestra di Luca mi chiamò a scuola.

«Signor Conti, possiamo parlare un momento?» disse, facendo cenno a una sedia.

Mi sedetti, il cuore un po’ contratto. «Ha fatto qualche guaio?»

«No, no,» sorrise. «È un bambino educato. Solo… abbiamo fatto un disegno in classe, il tema era “La mia famiglia”. Luca ha disegnato un sacco di uomini con giubbotti arancioni intorno a lui e una donna con le ali in alto. Qualcuno ha detto che sembrava una… banda. Mi sono preoccupata, all’inizio.»

Tirai fuori dal borsello alcuni ritagli di giornale, le copie degli articoli che parlavano di quella sera in via del Mulino, delle raccolte di firme, dell’affido.

Lei lesse in silenzio.

«Capisco,» mormorò poi. «Non sapevo.»

«Adesso sa,» risposi piano. «Per Luca non siamo una banda. Siamo i suoi zii. E quella donna con le ali è sua madre.»

La maestra annuì, con gli occhi lucidi. «Cercherò di stare attenta alle parole che uso con lui.»


Sei mesi dopo l’affido, successe una cosa che mi spaccò il cuore in due e poi lo ricucì più grande di prima.

Stavamo facendo colazione. Pane, marmellata, latte tiepido. Luca masticava lento, sembrava pensieroso.

«Orso?» chiese all’improvviso.

«Dimmi.»

Si morse il labbro. «Se invece ti chiamo… papà? Ti dispiace?»

La tazza mi tremò in mano. La appoggiai piano.

«A te come fa sentire, chiamarmi così?» gli chiesi.

«Mi fa sentire… caldo qui,» disse, toccandosi il petto. «Ma ho paura che la mamma si arrabbi in cielo.»

«Secondo te, la tua mamma cosa voleva più di tutto?»

«Che io fossi al sicuro.» Ci pensò un attimo. «E che fossi amato più di tutte le stelle.»

Sorrisi. «Allora, secondo me, è contenta se hai un papà che ti vuole bene, qui sulla terra. Il suo posto nessuno lo prende. Ma un cuore può avere più di una persona dentro.»

«Allora ti posso chiamare papà?»

Deglutii. «Se ti va, sì.»

«Papà,» disse piano, assaggiando la parola come se fosse una caramella nuova. «Tu mi vuoi bene? Tantissimo?»

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