«Più di tutte le stelle,» risposi, senza esitare.
Lui sorrise. Quello stesso sorriso che avevo visto nelle foto di Elena dentro la busta. «È tanto amore,» disse.
«Sì,» confermai. «È tanto amore.»
Qualche mese fa, il nonno Ferri si presentò una volta alla nostra sede, con due cugini di Luca al seguito.
«Siamo comunque famiglia,» disse. «Vogliamo vederlo.»
Il gruppo San Michele si alzò in piedi quasi all’unisono. Nessuno urlò. Nessuno fece gesti bruschi. Semplicemente, ci siamo messi tra loro e la porta dell’ufficio dove Luca stava facendo i compiti.
«Luca ha una famiglia,» dissi. «Quella che sua madre ha scelto. Quella che non gli fa paura. Se vorrà, un giorno, decidere lui che rapporto avere con voi, sarà una sua scelta. Per ora no.»
Ci guardarono male. Ma, forse per la prima volta, videro che non eravamo solo “quelli dei furgoni”. Eravamo un muro, calmo e fermo.
Se ne andarono. Non li abbiamo più rivisti.
Oggi.
«Papà!»
Luca corre verso di me all’uscita da scuola, lo zaino che sobbalza. Ha otto anni adesso. È ancora piccolino per la sua età, ma gli occhi hanno una luce nuova.
«Com’è andata?» chiedo, prendendogli lo zaino.
«Benissimo! Abbiamo parlato degli eroi in classe. Ognuno doveva dire chi è il suo eroe.»
«E tu chi hai scelto? Un calciatore?»
Scuote la testa, serio. «No. Ho detto il gruppo San Michele. Ho detto che gli eroi non hanno sempre il mantello. A volte hanno la pancia, i capelli bianchi e guidano furgoni rumorosi e salvano i bambini quando le mamme devono andare in cielo.»
Mi viene da ridere e da piangere insieme. «La maestra cosa ha detto?»
«Che è una bella risposta.» Sorride. «Ha detto che devo portarle una foto di tutti.»
Ci incamminiamo verso il furgone. Lui sale sul sedile davanti, allaccia la cintura con una concentrazione solenne.
«Papà?» chiede di nuovo, quando metto in moto.
«Dimmi, Luca.»
«Secondo te, la mamma lo sa che ha scelto bene?»
Guardo per un attimo il cielo sopra i palazzi. Penso alla finestra di via del Mulino, agli occhi di Elena che ci seguivano da lontano, alla catena intorno alla caviglia di un bambino che adesso corre in cortile.
«Sì, secondo me lo sa,» rispondo.
«Come fai a saperlo?»
«Perché tu sei vivo, sei al sicuro e ridi di nuovo. E questo era tutto quello che lei voleva.»
Lui annuisce, soddisfatto. «Possiamo prendere un gelato?»
«Dopo cena.»
«E se mangio anche le verdure?»
«Allora due gelati,» concedo.
Ride. La sua risata riempie il furgone, copre il rumore del motore, entra nelle crepe delle mie paure e le ricuce.
A volte, la sera, quando Luca dorme, prendo dal cassetto la busta di Elena. La leggo di nuovo, anche se ormai la so quasi a memoria.
“Salvate il mio bambino.”
Ci penso ogni volta che gli preparo lo zaino, che gli controllo i compiti, che sopporto i suoi “ancora cinque minuti” davanti ai cartoni. Ci penso quando gli tiro su le coperte dopo un incubo. Quando mi abbraccia all’improvviso in mezzo alla strada.
Elena ha salvato suo figlio morendo da sola in un appartamento vuoto, per paura che qualcuno glielo strappasse ancora. Noi lo salviamo ogni giorno restando. Restando quando ha paura. Restando quando è felice. Restando quando è solo un bambino che fa capricci.
La famiglia, l’ho imparato tardi, non è solo quella che ti mette al mondo. È anche quella che ti tiene la mano quando vorresti scappare, quella che ti ripete cento volte le stesse parole finché ci credi.
Parole come: «Ti amo più di tutte le stelle.»
Un giorno, qualche settimana fa, mentre spegnevamo la luce della sua cameretta, Luca mi ha guardato serio.
«Papà?»
«Sì?»
«Ti voglio bene più di tutte le stelle.»
Mi si è sciolto qualcosa dentro che non sapevo neanche di avere.
«Anch’io, Luca,» ho risposto. «Più di tutte le stelle.»
E, dentro di me, ho pensato:
“Elena Rossi, tuo figlio è al sicuro. Tuo figlio è amato. Tuo figlio mi chiama papà, e io lo chiamo figlio. Hai scelto bene. E continueremo a dimostrartelo, ogni singolo giorno, finché avremo fiato.”
Perché questo fa una famiglia.
E noi, ormai, siamo la sua.
Per sempre.






