La prima volta che ho rimesso piede in casa, l’odore mi ha fatto più male dell’anca. Non era cattivo. Era semplicemente… vero. Coperte chiuse in fretta, minestra rimasta nella pentola, un freddo vecchio rimasto appiccicato ai muri. Sembrava la cucina di una donna che era uscita “un attimo” e poi aveva quasi smesso di tornare.
Barnaba mi seguiva come un’ombra pesante. Non correva, non saltava. Stava vicino, con quell’attenzione quieta di chi sa che certe cose possono succedere di nuovo, senza avvertire.
Elia mi ha spinto la carrozzina oltre il tappeto del corridoio, quello maledetto tappeto.
«Questo lo leviamo, vero?» ha detto, cercando di farla semplice.
Io ho guardato il bordo arrotolato, come se fosse un serpente che si fingeva stoffa.
«Sì,» ho risposto. «O lo fissiamo. O lo bruciamo. Qualcosa, insomma.»
Elia ha riso piano, e Barnaba ha fatto un verso di approvazione, un soffio che sembrava un “finalmente”.
Nei primi giorni non ho fatto l’eroina. Ho fatto la vecchia signora che si stanca dopo due passi e si arrabbia con se stessa perché si stanca. Ogni gesto aveva una fatica nuova: alzare una tazza, piegarsi per prendere un calzino, persino aprire la finestra per cambiare aria.
E poi c’era quel pensiero sottile, che non si dice a nessuno: se ricado, stavolta chi mi sente?
Mi hanno dato un campanello d’emergenza, uno di quelli che porti al collo. Una cosa utile, certo. Ma io lo guardavo come si guarda un’ultima difesa, e mi faceva paura proprio per questo.
Barnaba, invece, non aveva paura di niente. O forse ce l’aveva, ma non gli interessava.
La sera, quando la luce in strada tremolava per il vento, lui si irrigidiva. Non ululava più come prima. Ma respirava diverso, come un vecchio che ricorda. Allora io gli mettevo una mano sulla schiena, lenta, e gli dicevo:
«Ci sono. Siamo qui.»
Lui mi appoggiava la testa contro la gamba, e sembrava bastare.
Un giovedì, Elia è tornato con una busta della ferramenta e un’aria troppo seria per un diciannovenne.
«Ho parlato con mia madre,» ha detto. «E con quello che viene a fare lavoretti nel palazzo. Possiamo sistemare due cose. Niente di che.»
Non ha detto “perché lei è anziana”, non ha detto “così non muore”. Ha detto “due cose”, come se fosse normale prendersi cura di un pezzetto di mondo.
Ha fissato il tappeto con una striscia antiscivolo. Ha cambiato una lampadina del pianerottolo che sfarfallava da mesi. Ha controllato che la torcia fosse nel cassetto giusto, e non in quello delle “cose varie” dove tutto sparisce.
Poi ha indicato il vecchio termostato.
«Questo è… come dire… dell’epoca di Garibaldi.»
«Garibaldi era più affidabile,» ho risposto.
Elia ha sorriso, ma poi ha abbassato la voce.
«Signora Lidia… quella notte io ho avuto paura. Non per me. Per lei. E… per lui.»
Ha guardato Barnaba che dormiva, con la pancia che si alzava e si abbassava come una fisarmonica stanca.
Io ho annuito, perché non c’era bisogno di aggiungere niente.
Da quel giorno, senza che nessuno lo dichiarasse, ci siamo presi un’abitudine. Elia passava a controllare una volta al giorno, cinque minuti. Io, in cambio, gli lasciavo sul tavolo un barattolo: biscotti secchi, taralli, qualche fetta di ciambellone quando mi riusciva. Non era carità, era scambio. È una cosa che agli adulti piace chiamare “indipendenza”, ma a me sembrava semplicemente… dignità.
E Barnaba, nel mezzo, faceva da ponte. Non gli interessavano i ruoli. Gli interessavano le presenze.
Un pomeriggio di gennaio, Elia ha bussato con una scatola.
«Posso?» ha chiesto.
«Hai già fissato il tappeto. Ormai sei dentro la famiglia,» ho detto.
Dentro c’era una cuccia nuova, bassa, con un bordo morbido.
«Per lui,» ha detto. «Quella vecchia… è un po’ schiacciata.»
Barnaba l’ha annusata con lentezza. Poi ha fatto una cosa che mi ha spezzato il fiato: si è seduto davanti alla cuccia, come se stesse valutando un regalo troppo grande per uno come lui. Come se non sapesse più cosa si fa con una cosa nuova.
Elia si è grattato la nuca, imbarazzato.
«Non è niente, eh. È solo… ho pensato che…»
Io ho guardato la scena e mi è venuta in mente quella nota sulla scheda del canile: “tempo limitato”. E mi è salito un caldo agli occhi.
«È tanto,» ho detto piano. «È tantissimo.»
Quella notte Barnaba ha dormito nella cuccia nuova per tre ore, poi è venuto a rimettersi sui miei piedi, come sempre. Non per capriccio. Per lavoro. Il suo lavoro era ricordarmi che ero ancora qui.
I mesi successivi mi hanno insegnato una cosa che non avevo mai voluto imparare: invecchiare non è solo perdere, è anche scegliere cosa tenere. E io ho scelto di tenere le cose che sembravano piccole, ma che mi tenevano su.
La fisioterapista veniva due volte a settimana. Mi faceva fare esercizi che sembravano punizioni.
«Su, signora Lidia, un altro passo.»
Io sbuffavo, mi lamentavo, e poi lo facevo. Perché Barnaba mi guardava. E quando un cane vecchio ti guarda così, non puoi fare la vittima. Non davanti a uno che si è rialzato tre volte per venire ad appoggiare la guancia sulle tue nocche.
In primavera, quando l’aria ha ricominciato a profumare di terra bagnata e fiori stanchi, ho portato Barnaba fuori con il guinzaglio di cuoio di Guglielmo. Lo stesso, quello consumato ma solido.
Siamo arrivati al giardinetto sotto casa. Io con il bastone, lui con la sua andatura da camion che ha perso una marcia.
Ci siamo seduti su una panchina, e io ho sentito una cosa nuova: non il vuoto, ma una specie di pausa buona. Un silenzio che non fischiava più.
E lì è successa una cosa che non mi aspettavo. Una signora con una borsa della spesa si è fermata.
«Che bel cane,» ha detto. «È… anziano, vero?»
Barnaba ha alzato la testa lentamente, come se quel “bel” gli facesse quasi ridere.
«Sì,» ho risposto. «È un cane… importante.»
Lei ha sorriso, poi si è avvicinata e ha abbassato la voce.
«Mio marito è morto l’anno scorso. Da allora… non riesco più a dormire. Mi vergogno a dirlo, ma la casa mi sembra… enorme.»
Io l’ho guardata. Aveva quella faccia che conosco bene: non tristezza teatrale, ma stanchezza quotidiana.
«Non si vergogni,» ho detto. «È la cosa più normale del mondo.»
La signora ha annuito, e poi ha fatto una domanda che mi ha sorpreso.
«Lei come fa?»
Mi è venuto da ridere, ma senza cattiveria.
«Io ho un cane invisibile,» ho detto. «O meglio… avevo chiesto un cane invisibile, e invece mi hanno dato questo. Che non è invisibile. È solo… uno che capisce quando la gente non ti vede.»
La signora ha guardato Barnaba come si guarda una cura che non sapevi esistesse.
«Io… non potrei,» ha sussurrato. «Mi dicono sempre: prenda un cucciolo, così si distrae.»
Mi è tornata in mente la frase delle banane verdi. E l’ho detta, perché certe verità vanno condivise come il pane.
«I cuccioli sono per chi compra ancora le banane verdi,» ho risposto. «Noi… abbiamo bisogno di un passo lento.»
La signora ha sorriso, e poi si è allontanata con gli occhi lucidi. Non è tornata subito, ma da quel giorno mi salutava sempre. A volte basta questo: non essere più una sagoma nel paesaggio.
Una domenica mattina, Elia mi ha portato un caffè in un bicchiere di carta.
«Oggi lavoro,» ha detto. «Turno lungo. Però… volevo chiederle una cosa.»
Io ho alzato un sopracciglio.
«Dimmi.»
Lui ha esitato, poi ha tirato fuori il telefono. Mi ha mostrato una pagina, una specie di bacheca locale. C’era scritto: “Rete di vicinato — controlli per anziani soli durante blackout e maltempo”.
«L’ho messa io,» ha detto. «Dopo quella notte. Ho chiesto a due amici, poi si sono aggiunti altri. Niente di ufficiale, eh. Solo… ci scriviamo, ci diamo i numeri, ci controlliamo.»
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