Io ho sentito un peso nel petto, ma questa volta era un peso buono.
«E perché me lo fai vedere?» ho chiesto.
Elia si è guardato le scarpe, come fanno i ragazzi quando hanno paura di essere presi in giro.
«Perché… vorrei che lei fosse… cioè… il motivo. Non il motivo scritto, capisce. Ma… se qualcuno chiede perché l’abbiamo fatto, posso dire: perché una signora e un cane mi hanno insegnato che non si aspetta sempre che sia il Comune a salvarti.»
Io ho inspirato piano. Ho pensato a quante volte avevo detto “i miei figli sono brave persone”. E lo erano. Ma la vita è così: a volte la bontà arriva da chi non ti appartiene, e proprio per quello ti salva.
«Va bene,» ho detto. «Ma scrivi anche una cosa: che non serve essere eroi. Serve solo essere presenti.»
Elia ha annuito. Poi ha fatto qualcosa che mi ha commosso più di un discorso: ha accarezzato Barnaba con un gesto semplice, senza teatralità.
Barnaba ha chiuso gli occhi, e per un attimo è sembrato giovane. Non nel corpo. Nell’anima.
L’estate è arrivata piano, come arrivano le cose belle quando non le forzi. Io camminavo meglio. Sempre lenta, sempre con attenzione. Ma camminavo.
Barnaba invece… cominciava a perdere colpi. Si fermava più spesso. Respirava più corto. La veterinaria veniva a casa per non farci fare viaggi inutili.
Una sera, dopo averlo visitato, mi ha guardata con quella faccia che non mente.
«Sta andando avanti per affetto,» ha detto. «Ma il cuore… è stanco. Dobbiamo pensare al suo bene. Quando arriverà il momento, meglio che sia… dolce.»
Io ho annuito. Non ho fatto scenate. Non ho implorato. Perché io i finali li conoscevo.
Ma quella notte ho dormito con una mano sul suo fianco. E lui, ogni tanto, sospirava. Non come uno che chiede, ma come uno che ringrazia.
Il momento è arrivato in un martedì, naturalmente. Come se la vita avesse senso dell’ironia.
Era mattina. La luce entrava pulita dalle finestre. Il riscaldamento era spento, perché non serviva. Io avevo apparecchiato due ciotole: una con acqua fresca, una con un po’ di pollo lesso, il suo preferito.
Barnaba ha annusato, ha fatto due leccate, poi si è sdraiato vicino alla mia poltrona. La poltrona di Guglielmo.
Mi ha guardata, e in quello sguardo c’era una cosa che mi ha tolto il respiro: calma. Non resa. Calma.
Ho chiamato la veterinaria. Poi ho chiamato Elia.
È arrivato in dieci minuti, con gli occhi già rossi.
«Non voglio che sia solo,» ho detto.
Elia si è inginocchiato dall’altra parte, vicino alla testa di Barnaba. Gli ha sussurrato qualcosa che io non ho sentito, ma ho visto le labbra tremare.
La veterinaria è entrata piano, come si entra in chiesa. Ha spiegato ogni cosa, con rispetto. Io ho annuito, e ho tenuto Barnaba tra le mani.
«Bravo,» gli ho detto. «Sei stato bravo fino all’ultimo.»
Barnaba ha chiuso gli occhi proprio mentre la mia mano gli accarezzava l’orecchio. E se n’è andato senza rumore, come un vecchio che finalmente trova un posto comodo dove riposare.
Dopo, la casa è diventata enorme. Di nuovo.
Ma non era lo stesso enorme di prima. Prima era un vuoto che ti mangia. Adesso era un vuoto che ti ricorda.
Elia è rimasto seduto sul pavimento con me. Non mi ha detto “si faccia forza”. Non mi ha detto “era solo un cane”. Mi ha passato un fazzoletto e basta. Presenza.
Quando la veterinaria se n’è andata, Elia ha guardato la cuccia nuova.
«Che facciamo… con quella?» ha chiesto piano.
Io ho fissato la cuccia. E mi è venuta un’idea che mi ha fatto paura e bene insieme.
«La portiamo al canile,» ho detto. «E anche il guinzaglio. E le coperte. E… se vuoi… ci andiamo insieme.»
Elia ha deglutito.
«Per prendere un altro cane?»
Io ho sorriso, ma non come prima. Un sorriso stanco, vero.
«Non subito. Io non compro banane verdi. Ma… magari c’è un altro Barnaba. Un altro “tempo limitato” che merita una stanza calda. E magari… questa volta non lo faccio per non sentirmi sola. Lo faccio perché so cosa significa essere scelti quando sembri finito.»
Elia ha annuito. E per la prima volta da quando lo conoscevo, mi ha dato del “tu”, senza accorgersene.
«Allora ci andiamo. Insieme.»
Qualche settimana dopo, siamo tornati al canile fuori Viterbo. Stessa strada, stesso odore di erba bagnata, stessa luce un po’ stanca nel corridoio in fondo.
La ragazza dell’ingresso ci ha riconosciuti. Mi ha guardata negli occhi, come fanno le persone gentili quando sanno già.
«Barnaba?» ha chiesto piano.
Io ho annuito. Lei ha allungato una mano e ha stretto la mia.
«Grazie,» ha detto. «Davvero.»
Non ho risposto subito, perché mi si stringeva la gola come la prima volta. Poi ho indicato la cuccia che Elia portava sotto braccio.
«Non voglio che resti vuota,» ho detto.
La ragazza ci ha accompagnati lungo il corridoio, oltre i cuccioli rumorosi, fino alla parte dove la vita fa meno scena e più verità.
Si è fermata davanti a una gabbia e ha sussurrato:
«Lei è Ada.»
Dentro c’era una cagnolina piccola, il pelo arruffato, un occhio velato. Non abbaiava. Non chiedeva. Guardava e basta, con quella dignità che hanno i sopravvissuti.
Sulla scheda: dodici anni, problemi ai reni, paura dei rumori improvvisi. E quella stessa frase, come un timbro: “tempo limitato”.
Elia mi ha guardata.
«Non è… troppo presto?»
Io ho messo la mano sulle sbarre. Ada non si è avvicinata. Ha fatto un passo, poi si è fermata, come se aspettasse un permesso invisibile.
«Non è presto,» ho detto. «È il momento giusto. Perché adesso so una cosa: non possiamo evitare i finali. Ma possiamo scegliere come arrivarci.»
Ada ha fatto un altro passo. Ha appoggiato il naso sulle mie dita. Leggera, timida, come una domanda.
Io ho sorriso, e mi è uscita una frase semplice, senza retorica.
«Ciao, piccola. Ti va di venire a casa?»
Elia ha tirato su col naso, si è girato un secondo per non farsi vedere. Poi ha detto:
«Io… posso passare a controllare. Come prima.»
Io l’ho guardato. Quel ragazzo con la felpa larga che era diventato una cosa rara: un vicino.
«Lo so,» ho risposto. «Ma stavolta, Elia… non sei solo tu che controlli me. Siamo una rete. Siamo gente che si vede.»
Quando siamo usciti, Ada aveva il guinzaglio al collo e un passo minuscolo accanto al mio bastone. Il sole era caldo. Il mondo correva, come sempre.
Ma io, per la prima volta dopo tanto, non mi sentivo fuori scena.
Mi sentivo scelta. E capivo la verità più semplice, quella che a ottantadue anni finalmente diventa chiara:
non si vince contro il tempo. Si vince contro l’invisibilità.
E a volte, per farlo, basta una cuccia che non resta vuota. Basta una porta con una lucina accesa. Basta qualcuno che bussa cinque minuti al giorno e non ti lascia diventare un silenzio.
Ada ha alzato il muso verso di me. Io le ho accarezzato la testa.
«Andiamo,» le ho detto. «Abbiamo ancora un po’ di vita da far rumore. Piano. Ma insieme.»






