Alla mia festa di nozze ho visto mia suocera cercare di avvelenare il mio spumante e ho cambiato bicchiere

Ho visto la sua mano sospesa sopra il mio flute di spumante per esattamente tre secondi.
Tre secondi che mi hanno cambiato la vita.

Il calice di cristallo era sul tavolo d’onore, pronto per il brindisi, pronto perché io lo prendessi in mano e bevessi qualunque cosa la mia nuova suocera avesse appena lasciato cadere dentro.

La piccola pillola bianca si è sciolta in fretta, lasciando a malapena una traccia tra le bollicine dorate. Patrizia non sapeva che la stavo osservando. Pensava che fossi dall’altra parte del salone della villa, a ridere con le mie damigelle, persa nella gioia del giorno del mio matrimonio. Pensava di essere sola. Pensava di essere al sicuro.

Ma io ho visto tutto.

Il cuore mi batteva così forte che lo sentivo nelle orecchie mentre la guardavo lanciare uno sguardo nervoso intorno a sé, le dita curate che tremavano appena mentre si ritiravano dal mio bicchiere. Le labbra le si arricciarono in un piccolo sorriso soddisfatto, di quelli che ti fanno gelare il sangue.

Non pensai. Mi mossi e basta.

Quando Patrizia tornò al suo posto, lisciandosi il tailleur di seta costosa e indossando il suo sorriso da “madre dello sposo perfetta”, io avevo già fatto il cambio. Il mio bicchiere adesso era davanti alla sua sedia. Il suo, quello pulito, aspettava me.

Quando Marco si alzò in piedi – bellissimo nel suo abito scuro su misura – e sollevò lo spumante per il primo brindisi della nostra vita da sposati, mi sembrò di guardare tutto attraverso una nebbia. Le sue parole sull’amore e sul “per sempre” mi arrivavano attutite. Sua madre era accanto a lui, raggiante, mentre portava alle labbra il calice con la pillola sciolta dentro.

Avrei dovuto fermarla. Avrei dovuto urlare, rovesciare il bicchiere, smascherarla lì, davanti a tutti.
Ma non l’ho fatto.

Volevo vedere cosa aveva in mente per me. Volevo una prova. Volevo che tutti vedessero chi era davvero Patrizia dietro quella maschera perfetta da signora rispettabile, benefattrice, “pilastro della comunità”.

Così ho guardato mia suocera bere il veleno che aveva preparato per me.
E poi l’inferno si è spalancato.


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La mattina del mio matrimonio mi sono svegliata credendo ancora nelle favole.

La luce del sole entrava a fiotti dalle finestre della suite nuziale di Villa dei Cipressi, alle porte del lago, tingendo tutto di oro morbido. La mia migliore amica, Martina, era già sveglia: stava appendendo il mio abito vicino alla finestra, in modo che la stoffa avorio con le maniche in pizzo prendesse tutta la luce.

«Oggi è il grande giorno, Chiara,» sussurrò, con gli occhi lucidi. «Ti sposi con Marco.»

Sorrisi così forte che mi facevano male le guance.
Marco. Il mio Marco. Dopo tre anni di fidanzamento, finalmente ci sposavamo. Finalmente saremmo diventati marito e moglie.

«Non mi sembra vero,» dissi, portandomi le mani allo stomaco, dove le farfalle avevano aperto un condominio stabile.

Mia madre entrò in quel momento, i capelli già sistemati dalla parrucchiera, il trucco perfetto, con un vassoio di caffè e brioche.

«La mia bambina,» disse, posando il vassoio e stringendomi in un abbraccio forte. «Sono così orgogliosa di te.»

Mia sorella minore, Silvia, ci piombò addosso subito dopo, quasi rimbalzando. «I fiori sono arrivati, e sono stupendi! Chiara, è tutto perfetto!»

Tutto era perfetto.
O almeno, così credevo.


La cerimonia in chiesa andò liscia come l’olio. Mio padre mi accompagnò all’altare, con gli occhi lucidi di lacrime che faceva finta di non avere. La piccola chiesa del paese era piena di candele e di fiori bianchi. Marco mi aspettava davanti all’altare, ed era l’incarnazione di ogni sogno che avessi mai fatto: capelli scuri sistemati con cura, occhi grigi fissi nei miei con una intensità tale che per un attimo dimenticai persino come si respirava.

Quando sollevò il velo e mi sussurrò: «Sei la cosa più bella che abbia mai visto», credetti davvero che stesse iniziando il mio “per sempre felici e contenti”.

Al suo fianco, come testimone, c’era il suo migliore amico Enrico, con un sorriso da orecchio a orecchio. Poco più indietro, in giacca e cravatta, il fratello minore di Marco, Luca, diciannove anni appena compiuti: si vedeva che non era a suo agio in uno smoking, ma mi regalò un sorriso caldo. Con lui mi ero sempre trovata bene.

Nella prima fila, Patrizia sedeva composta, asciugandosi gli occhi con un fazzolettino di pizzo, interpretando alla perfezione il ruolo di madre dello sposo emozionata. Accanto a lei, il marito, Giorgio, rigido e formale come sempre, con quell’espressione che non sapevi mai se fosse approvazione o giudizio.

Ci scambiammo le promesse. Le fedi. Il bacio, tra gli applausi di tutti.

Avrei dovuto capire che era troppo perfetto per durare.


Il ricevimento si teneva nella sala principale di Villa dei Cipressi: soffitti alti, lampadari di cristallo, grandi vetrate affacciate sui giardini curatissimi. Circa trecento invitati riempivano la sala: parenti, amici, colleghi, conoscenti di famiglia che non avevo mai visto prima.

La prima ora fu magica. Marco e io ballammo il nostro primo lento su una vecchia canzone romantica italiana. Ballai con mio padre mentre piangeva senza più nasconderlo. Marco ballò con sua madre, che teneva il suo solito sorriso controllato, quello da “tutto è sotto controllo”.

Stavo parlando con Martina e mia cugina Roberta vicino alla pista da ballo quando sentii quella sensazione strana sulla nuca, come se qualcuno mi stesse osservando troppo intensamente. Mi voltai e la vidi.

Patrizia mi fissava dall’altra parte della sala.

Non era lo sguardo di una suocera innamorata della nuova nuora. C’era qualcosa di freddo, di calcolatore.

Nel momento in cui i nostri occhi si incrociarono, le sue labbra si distesero in un sorriso cortese. Sollevò leggermente il bicchiere di spumante verso di me, come per un brindisi. Io mi costrinsi a ricambiare il sorriso, ma lo stomaco mi si strinse.

«Tutto bene?» chiese Martina, sfiorandomi il braccio.

«Sì,» mentii. «Solo… emozionata. Tanta roba tutta insieme.»

Ma non stavo bene. C’era qualcosa di stonato, anche se non sapevo ancora dargli un nome.

Patrizia non mi aveva mai davvero accolta in famiglia. Dal momento in cui Marco me l’aveva presentata, due anni prima, era stata sempre corretta, educata… e gelida. Nessuna frase cattiva in modo diretto, ma mille piccole punture: commenti sul fatto che il mio lavoro di insegnante di scuola media «non fosse proprio una carriera brillante», domande sulla mia famiglia che assomigliavano più a un interrogatorio che a una chiacchierata, insinuazioni che Marco fosse «ancora così giovane» e che fosse un peccato «chiudersi» così presto.

Marco liquidava tutto con un sorriso: «Mamma è solo protettiva. Poi ti amerà.»

Non lo fece mai.

I mesi prima del matrimonio erano stati un braccio di ferro continuo. Patrizia aveva un’opinione su tutto: la villa non era abbastanza lussuosa, il mio abito troppo semplice, la lista degli invitati piena di “troppi” miei parenti e “troppo pochi” dei loro. Cercò persino di convincerci a rimandare tutto per organizzare «una cosa fatta come si deve» con il suo organizzatore, il suo catering, la sua visione.

Avevo tenuto il punto. Quel matrimonio era mio e di Marco. Lei aveva sorriso tirata e aveva detto: «Come vuoi, cara. L’importante è che tu sia contenta.» Ma nei suoi occhi c’era solo ghiaccio.

Ora, mentre la osservavo muoversi tra i tavoli con il suo abito perfetto, il trucco impeccabile, quell’aria di donna che ha tutto sotto controllo, la sensazione di disagio dentro di me cresceva.

«È quasi ora dei brindisi,» disse Silvia, sbucando al mio fianco con un altro flute in mano. «Pronta?»

Presi il bicchiere, il vetro freddo tra le dita. «Pronta più o meno.»


I flute erano stati preparati dal catering e disposti sul tavolo d’onore: uno per me, uno per Marco, uno per ogni membro del corteo nuziale e uno per ciascun genitore che avrebbe parlato. Ogni bicchiere aveva un piccolo segnaposto accanto.

Posai il bicchiere che Silvia mi aveva appena portato davanti al mio posto e andai in bagno a sistemarmi il trucco. Martina venne con me, parlando senza sosta di quanto fosse stato romantico l’ingresso in chiesa, di quanto fosse bello Marco, di come tutti avessero pianto.

Quando tornammo nella sala dopo un quarto d’ora, il DJ stava annunciando che i brindisi sarebbero cominciati a momenti. Gli invitati tornavano ai loro tavoli, l’atmosfera stava cambiando: l’attenzione si concentrava verso il tavolo d’onore.

Stavo attraversando la sala, ridendo per qualcosa che aveva detto Martina, quando la vidi.

Patrizia.
In piedi, davanti al tavolo d’onore. Da sola.

Le voltavo le spalle, ma potevo vedere il suo braccio teso, la mano sospesa sopra i bicchieri di spumante. Mi fermai di colpo, il cuore in gola. Che stava facendo?

Guardò a sinistra, poi a destra, per assicurarsi di non essere osservata. La mano si mosse rapida, qualcosa di piccolo e bianco cadde dalle sue dita dentro uno dei bicchieri. Il mio. Lo capii dalla posizione: il terzo da sinistra, esattamente dove l’avevo appoggiato.

La pillola si sciolse quasi subito tra le bollicine. Patrizia ritrasse la mano, si lisciò il vestito, si voltò e tornò ai tavoli con passo sicuro.

Il mio corpo diventò ghiaccio.

Martina parlava ancora, ignara: «…e hai visto tuo padre come piangeva? Era tenerissimo.»

«Aspetta un attimo,» la interruppi, con una voce che mi sembrava venisse da lontano.

Mi avviai verso il tavolo d’onore a passi lenti, la mente in sovraccarico. Avevo davvero visto quello che pensavo di aver visto? Patrizia era davvero capace di una cosa del genere?

Sapevo cosa avevo visto. Non c’era modo di confonderlo con qualcos’altro. Lo sguardo furtivo, il gesto rapido, la fuga. Aveva messo qualcosa nel mio bicchiere.

Ma perché? Cos’era? Un tranquillante per farmi sembrare ubriaca? Qualcosa per farmi stare male? O peggio?

Le mani mi tremavano mentre mi avvicinavo al tavolo. I bicchieri erano allineati, uguali, innocenti. Quale era quello “truccato”? Il terzo da sinistra. Il mio.

Rimasi immobile un secondo lunghissimo. Guardai intorno. Nessuno mi stava osservando. Il DJ parlava al microfono, gli invitati chiacchieravano, Marco era dall’altra parte della sala con un suo vecchio compagno di università.

Avevo forse trenta secondi.
La mia mano si tese, tremando.

Presi il terzo bicchiere da sinistra – il mio – e lo portai verso la parte del tavolo dove sarebbe rimasta in piedi Patrizia per il suo brindisi. Poi presi il suo bicchiere, quello davanti al cartellino con il suo nome, e lo misi al posto del mio. Il calice “drogato” prese il posto del suo.

Il cuore mi batteva così forte che temevo di svenire.
Che stavo facendo? Era follia pura.

«Signore e signori, vi preghiamo di accomodarvi,» annunciò il DJ. «Stiamo per iniziare con i brindisi.»

Sussultai, quasi rovesciando lo spumante. Mi allontanai in fretta dal tavolo, le gambe molli.

Martina mi afferrò la mano. «Andiamo, devi sederti.»

Mi lasciai guidare fino alla sedia d’onore. Marco si sedette accanto a me, il viso illuminato da un sorriso enorme, e mi stringette la mano sotto il tavolo.

«Pronta?» mi chiese.

Non riuscivo a parlare. Annuii soltanto.


Mio padre fu il primo a parlare. Tirò fuori un foglio stropicciato dalla tasca della giacca, con le mani che gli tremavano. Fece un discorso bellissimo su quando ero bambina, su quanto era orgoglioso di me, e aggiunse ridendo che Marco avrebbe dovuto trattarmi bene o avrebbe avuto a che fare con lui. Tutti risero. Io cercai di sorridere, ma i miei occhi continuavano a scivolare verso il bicchiere davanti al posto di Patrizia.

Cosa avevo fatto?

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