Alla mia festa di nozze ho visto mia suocera cercare di avvelenare il mio spumante e ho cambiato bicchiere

Mia madre parlò dopo, tra le lacrime, raccontando del matrimonio come cammino, dell’importanza di camminare insieme. Sentivo solo frasi spezzate. Poi fu il turno di Enrico, che fece battute sull’epoca da “single” di Marco e detta “consigli da uomo sposato” che nessuno si sarebbe mai sognato di seguire.

Infine, Patrizia si alzò in piedi.

Era elegante, composta, il flute in mano. Sorrise con grazia, spazzando la sala con lo sguardo.

«Grazie a tutti per essere qui,» cominciò, con quella voce calma e ben impostata. «Oggi non celebriamo solo un matrimonio, ma l’unione di due famiglie.»

La gola mi si seccò di colpo. Non riuscivo a deglutire.

«Marco è sempre stato il mio orgoglio,» continuò. «Il mio primo figlio. Il mio ragazzo brillante, bello, capace.» Guardò il figlio con una tenerezza così genuina che, per un istante, mi chiesi se non mi fossi inventata tutto. Forse lo amava davvero. Forse voleva solo il meglio per lui.

Poi i suoi occhi si posarono su di me.
E lo vidi di nuovo: quel lampo freddo.

«Chiara,» disse. Il mio nome nella sua bocca suonava storto. «Benvenuta nella nostra famiglia. Spero che tu sia molto… felice.»

La pausa prima di “felice” era troppo lunga.
Sollevò il bicchiere. «Agli sposi.»

«Agli sposi!» ripeté la sala in coro.

Sollevai il mio flute con le mani che tremavano. Marco fece lo stesso, radioso. Patrizia portò lo spumante alle labbra e bevve a sorsi lunghi.

La guardai, paralizzata, mentre ingoiava una, due volte. Abbassò il bicchiere con lo stesso sorriso soddisfatto di prima. Niente. Per un attimo pensai di essermi sbagliata. Forse non era niente di che, forse non aveva messo abbastanza da fare danno, forse…

Poi Patrizia sbatté le palpebre, come sorpresa da qualcosa.

Marco era in piedi ora, stava facendo il suo brindisi: parlava di come mi aveva amata dal primo incontro, di come voleva costruire una vita insieme, di un futuro a due. Non capivo una parola. Stavo osservando solo lei.

Patrizia posò il bicchiere. Si portò una mano alla fronte. Oscillò appena, aggrappandosi allo schienale della sedia.

Giorgio le toccò il gomito. «Patrizia?»

«Sto bene,» rispose, ma la voce era strana, impastata.

Marco finì il suo brindisi. Tutti bevvero. Io portai il bicchiere alle labbra, ma lasciai che lo spumante mi bagnasse appena la bocca senza deglutire. Lo posai subito.

Il DJ rimise la musica. La sala ricominciò a chiacchierare, i camerieri si muovevano tra i tavoli. Io non mi mossi. Fissavo Patrizia.

Era ancora in piedi, ma c’era qualcosa di diverso. Gli occhi le brillavano in modo strano. Sorrise… troppo. Un sorriso largo, sciolto, che non le avevo mai visto.

«Patrizia, forse è meglio che ti sieda,» suggerì Giorgio piano, cercando di guidarla alla sedia.

«No,» disse lei forte, scrollandolo via. Alcune persone si voltarono. «No, mi sento benissimo!»

E scoppiò a ridere. Non la sua solita risatina trattenuta da signora perbene. Una risata acuta, quasi isterica.

Marco aggrottò la fronte. «Mamma?»

«Marco!» gridò lei, barcollando leggermente e aggrappandosi al tavolo. «Amore di mamma, ti ho mai detto quanto sono fiera di te?»

«L’hai appena detto, mamma. Nel brindisi.»

«Ah, sì?» Un’altra risata. «Beh, lo sono. Tanto, tanto fiera.»

Stava parlando troppo forte. Sempre più persone la guardavano. Giorgio si alzò in piedi, il volto arrossato. «Patrizia, basta. Andiamo a prendere un po’ d’aria.»

«Non ho bisogno d’aria!» annunciò lei, rivolta ormai a mezza sala. «Ho bisogno di ballare!»

Prima che qualcuno potesse fermarla, si tolse le scarpe coi tacchi e corse – corse davvero – sulla pista da ballo. Il DJ stava mettendo un lento. Patrizia cominciò a ballare come in discoteca: braccia alzate, fianchi che si muovevano a caso, completamente fuori tempo rispetto alla musica.

La sala si fece silenziosa. Si sentivano solo la musica e le sue risate.

«Oh, mio Dio,» sussurrò Marco accanto a me. Non riuscivo a muovermi. Guardavo solo la scena, come in un incubo.

«Tutti a ballare!» urlò Patrizia, girando su se stessa. Alcune forcine saltarono e i capelli perfetti iniziarono a disfarsi.

Luca si avvicinò al nostro tavolo, pallidissimo. «Che cos’ha la mamma?»

«Non lo so,» rispose Marco, alzandosi di scatto. «Vado a prenderla.»

Si incamminò verso la pista, ma Patrizia lo vide arrivare e scappò dall’altra parte, ridendo come una ragazzina. «Se mi prendi hai vinto!»

Ora molti invitati stavano tirando fuori i telefoni. Vidi i flash, i video che iniziavano. Marco la raggiunse finalmente e le prese il braccio con delicatezza.

«Mamma, basta. Devi sederti. Non stai bene.»

«Io sto benissimo!» dichiarò lei, le parole sempre più impastate. «Meglio di come stavo da anni!»

Si divincolò e barcollò verso il tavolo dei dolci, dove troneggiava la nostra torta nuziale: cinque piani di perfezione bianca, fiori di zucchero, un’opera d’arte che era costata più della mia prima macchina.

«Mamma, no!» gridò Marco.

Ma Patrizia era già lì. Si fermò davanti alla torta, oscillando leggermente, gli occhi spalancati.

«Che bella…» biascicò. Poi allungò la mano e affondò le dita nel primo piano, strappando via una manciata di torta.

«Mamma!» urlò Marco.

Patrizia si spinse in bocca il pezzo, sporcandosi tutta la faccia di crema. Poi rise di nuovo e ne afferrò dell’altra, lanciandola in giro.

Un pezzo di torta schizzò sul vestito di un’invitata. Qualcuno urlò. La sala esplose nel caos.

Giorgio e Marco corsero verso di lei per allontanarla dalla torta, ma Patrizia si dimenava, sempre ridendo, con le mani piene di panna e fiori di zucchero.

Alcuni invitati si alzarono per aiutare, altri si tenevano alla larga, scioccati. I telefoni erano ormai tutti sollevati.

«Qualcuno chiami un’ambulanza!» sentii gridare mia madre.

La testa mi girava. Mi aggrappai al bordo del tavolo per non cadere. Patrizia, poco dopo, crollò seduta davanti alla torta mezza distrutta, il suo abito costoso completamente imbrattato. Rideva ancora, ma la risata era più debole, gli occhi si rovesciavano all’indietro.

«Patrizia!» Giorgio si inginocchiò accanto a lei, le mani che tremavano. «Che cos’hai? Che cosa hai preso?»

«Niente…» mormorò lei, a malapena comprensibile. «Non ho… preso niente.»

Marco si voltò verso di me, il volto sconvolto. I nostri sguardi si incrociarono tra quel caos di grida, musica, torte per aria.

Mi alzai in piedi, sentendo le gambe di gomma.
Che cosa avevo fatto?

Martina mi raggiunse. «Chiara, che succede? È un ictus? Cos’è?»

«Non lo so,» sussurrai. Ma lo sapevo. Sapevo esattamente cosa stava succedendo. Patrizia stava vivendo quello che aveva preparato per me.

L’ambulanza arrivò in pochi minuti. Caricarono Patrizia su una barella davanti a tutti. Giorgio salì con lei sull’ambulanza. Marco rimase in mezzo alla sala distrutta, con la giacca macchiata di panna, lo sguardo perso.

Mi avvicinai piano. «Marco.»

Si voltò verso di me, gli occhi lucidi. «Non capisco. Lei beve pochissimo. Non l’ho mai vista così.»

«Dobbiamo andare in ospedale,» dissi piano.

Annui, come in trance. Il ricevimento era finito. Gli invitati se ne andavano velocemente, parlando tra loro sottovoce, con i telefoni ancora in mano. Il “giorno perfetto” si era trasformato in uno spettacolo da brivido. Ma non era il mio disastro. Era quello di Patrizia.

E in un angolino della mente, una voce sussurrava: Se l’è cercata. È stato il suo veleno.
Poi guardai mio marito, distrutto, e pensai: O forse ho appena fatto il più grande errore della mia vita.


La sala d’attesa dell’ospedale odorava di disinfettante e caffè bruciato.

Ero seduta accanto a Marco, ancora con l’abito da sposa addosso. Il pizzo, che poche ore prima mi era sembrato un sogno, ora sembrava un costume di carnevale fuori luogo. Mia madre era dall’altro lato, mi teneva la mano. Mio padre camminava avanti e indietro. Luca era seduto di fronte a noi, con il viso tirato. Giorgio era scomparso dentro il reparto d’urgenza con Patrizia e non era più uscito.

Marco non parlava da più di un’ora. Stava seduto con i gomiti sulle ginocchia e la testa tra le mani, ancora in abito da sposo, una macchia di panna sulla manica.

Continuavo a rivedere la scena nella mente: la mano di Patrizia sul bicchiere, la pillola, il cambio dei flute.

Avrei dovuto dirlo. Avrei dovuto dirlo subito. Ma ogni volta che aprivo la bocca, la paura mi bloccava le parole in gola.

E se non mi crede?
E se pensa che sia colpa mia?
E se questo distrugge il matrimonio appena iniziato?

«Familiari di Patrizia Bianchi?»

Ci alzammo tutti nello stesso istante. Un medico in camice bianco si avvicinò, con una cartella in mano.

«Com’è?» chiese Giorgio, comparendo da un corridoio, il volto stravolto.

«È stabile,» rispose il medico. «Ma devo farvi alcune domande. La signora ha assunto farmaci oggi? Qualcosa di insolito?»

Giorgio scosse la testa. «No. Nessun farmaco. Prende solo qualche vitamina.»

«Beve spesso alcolici?»

«Quasi mai. Un bicchiere di vino a cena, qualche volta.»

Il medico si appuntò qualcosa. «Dalle analisi risulta una quantità significativa di diazepam nel sangue. Qualcuno di voi sa se la signora ha una prescrizione per questo farmaco?»

«Diaze… che?» mormorò Giorgio.

«Un ansiolitico. Un sedativo. Spesso usato per l’ansia.»

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