Alla mia festa di nozze ho visto mia suocera cercare di avvelenare il mio spumante e ho cambiato bicchiere

«Era assente. Lavoro, riunioni, circoli. Lascio che gestisse lei. Ora è disgustato, ma per anni ha chiuso gli occhi.»

La psicologa annuì. «Marco, quello che hai vissuto è una forma di controllo e di pressione psicologica importante. È normale che tu faccia fatica a vedere tua madre come “cattiva”. Per te è sempre stata… l’unica madre possibile.»

Lui abbassò lo sguardo. «E quando Chiara ha detto quello che aveva visto, era come se mi stesse chiedendo di scegliere. E io… ho vacillato.»

«Ora lo sai,» dissi, prendendogli la mano. «E sei qui. Con me.»

Lui la strinse più forte.


Quando arrivò novembre, avevo la sensazione di aver invecchiato di anni.

La scuola mi riaccolse in servizio, anche se con mille cautele. I ragazzi mi guardavano con una curiosità mista a rispetto. Alcuni genitori smettevano di fissarmi come se fossi un fenomeno da baraccone; altri continuavano a farlo, ma era diventato sopportabile.

I giornali parlavano sempre meno del “caso della suocera”, presi da scandali nuovi. Ma quando si seppe che il processo stava per iniziare, gli articoli ricominciarono.

«La suocera dello spumante alla sbarra»
«Inizia il processo alla signora del “bicchiere scambiato”»

Io smisi di leggere.

La mattina della prima udienza, mi svegliai prima della sveglia. Era ancora buio. Marco dormiva al mio fianco, la fronte aggrottata anche nel sonno.

Mi alzai piano, andai in bagno e mi guardai allo specchio. Non c’era più la ragazza che si era svegliata la mattina del matrimonio credendo nelle favole. C’era una donna stanca, ma con lo sguardo più deciso.

Presi il completo blu che avevo scelto con mia madre – sobrio, pulito – e lo indossai. Mentre allacciavo i bottoni, Marco si affacciò alla porta.

«Sei bellissima,» disse, con un sorriso triste. «Anche così.»

«Così come?» chiesi.

«Così… vera,» rispose. «Pronta.»

Mi prese la mano. «Andiamo?»

Annuii. Era arrivato il giorno che avevo temuto e atteso per mesi.

Il giorno in cui, in un’aula di tribunale, avrei dovuto raccontare a sconosciuti cosa aveva fatto mia suocera.
E il giorno in cui la giustizia avrebbe deciso se credermi oppure no.

Varcammo insieme la soglia del tribunale, sotto un cielo grigio d’autunno. I giornalisti erano lì, i microfoni pronti, le domande sulle labbra.

Ma questa volta, non mi sembrava più di essere una ragazza travolta da qualcosa di troppo grande.
Questa volta, sapevo perché ero lì.

Ero lì per dire la verità.

A qualsiasi costo.

L’aula era più piccola di come l’avevo immaginata.

Una stanza rettangolare, il banco del giudice in fondo, il posto per il Pubblico Ministero da una parte, quello della difesa dall’altra. Dietro, alcune file di sedie per il pubblico. In prima fila c’erano i miei genitori e Silvia. Poco più indietro, qualche vicino di casa curioso e persone che non avevo mai visto, attirate dal “caso” di cui ormai parlavano tutti.

Patrizia era seduta accanto all’avvocato Ricci, al banco degli imputati. Tailleur chiaro, collana di perle, lo sguardo basso. Sembrava quasi fragile. Se non avessi saputo cosa aveva fatto, avrei potuto provare pena per lei.

Mi costrinsi a ricordare il bicchiere.

Il processo iniziò con la lettura dei capi d’accusa: tentate lesioni aggravate, messa in pericolo della persona. Parole fredde per qualcosa che, nella mia testa, aveva ancora il sapore di spumante e di panico.

La dottoressa Conti si alzò per la requisitoria iniziale. Parlò con calma, senza enfasi teatrali.

«Signor Giudice,» disse, «oggi non dobbiamo giudicare un carattere o un rapporto difficile tra nuora e suocera. Dobbiamo valutare fatti concreti. Una pastiglia di diazepam nel sangue della signora Patrizia. Un flacone con pillole mancanti a casa della sorella. Un filmato nitido in cui si vede l’imputata far cadere una compressa nel bicchiere destinato alla nuora. E una serie di comportamenti successivi che non hanno nulla dell’errore, ma molto del calcolo.»

Poi si sedette. L’avvocato Ricci si alzò a sua volta.

«La Procura costruisce una storia affascinante,» esordì con voce morbida, «quasi un romanzo. La suocera cattiva, la nuora innocente, la pillola misteriosa. Ma la giustizia non si basa sui racconti, bensì sui fatti. E i fatti, se guardati con serenità, mostrano una cosa sola: una donna di mezza età in preda all’ansia, che gestisce male un farmaco e vive le conseguenze sulla propria pelle. Niente di più.»

Si sedette. E per la prima volta, toccò a me.


Fui chiamata a testimoniare il secondo giorno.

Quando il cancelliere pronunciò il mio nome, le ginocchia mi si fecero molli. Marco mi strinse la mano.

«Sono qui,» sussurrò. «Qualunque cosa succeda, sono qui.»

Feci il giuramento, con la voce che mi pareva non mi appartenesse, poi mi sedetti al posto dei testimoni. La toga nera della PM Conti, seduta di fronte, mi faceva un’impressione strana: era lì per difendere me, ma incuteva comunque rispetto.

«Signora Chiara Bianchi,» iniziò, «può raccontare al giudice la sua relazione con l’imputata prima del matrimonio?»

Avevo ripetuto quel racconto decine di volte con lei, in ufficio. Ora, le parole uscivano quasi da sole. Parlai dei primi incontri con Patrizia, dei commenti sul mio lavoro “troppo modesto”, dei tentativi di cambiarci la lista degli invitati, di prendere in mano tutto.

«La signora Patrizia ha mai espresso chiaramente la sua contrarietà al matrimonio?» chiese la PM.

«Non ha mai detto “non voglio che vi sposiate”,» risposi. «Ma ogni suo gesto andava in quella direzione. Diceva che Marco era ancora giovane, che doveva pensarci, che aveva altre possibilità…»

Poi arrivò la domanda che sapevo sarebbe arrivata.

«Veniamo alla sera del ricevimento. Ci racconti, con calma, cosa ha visto.»

Inspirai profondamente.

Parlai del tavolo d’onore, delle flute in fila con i nomi, del fatto che ero andata a sistemarmi il trucco. Raccontai di come, tornando in sala, avevo visto Patrizia al tavolo, sola, con la mano sospesa sopra i bicchieri. Di quella compressa bianca che cadeva nel mio.

«Lei come ha reagito in quel momento?» chiese la PM.

«Mi sono bloccata,» dissi, senza più vergognarmi di quella parola. «Ho avuto paura. Ero sicura che non fosse una cosa innocente. L’ho vista guardarsi intorno, come se avesse paura di essere vista. Ho pensato: “Quello non è un integratore, non è una pastiglia qualsiasi. Non vuole il mio bene.”»

«E poi?»

«Mi sono avvicinata al tavolo quando lei si è allontanata. Ho controllato i nomi. Ho riconosciuto il mio bicchiere. E l’ho scambiato con il suo.»

«Perché?» chiese la PM, anche se lo sapeva già.

«Per salvare me. E… forse anche per avere una prova. Dentro di me, pensavo che, se avessi buttato via il bicchiere, tutti avrebbero detto che mi ero inventata tutto, che ero paranoica. Così, se ci fosse stato davvero qualcosa, si sarebbe visto.»

Mentre lo dicevo, provai di nuovo quella stretta allo stomaco. Ma non mi ritrassi.

La PM mi fece raccontare anche del momento del brindisi, del comportamento di Patrizia, della “baldoria” improvvisa, della torta distrutta, dell’arrivo dell’ambulanza.

Poi dei giorni in ospedale, del dottore che parlava di diazepam, del mio racconto alla polizia, dei filmati.

Infine, delle conseguenze: il lavoro, i giornalisti, la divisione nella famiglia.

Quando finii, avevo la bocca asciutta come carta.

La PM fece un cenno. «Grazie, signora Bianchi. Non ho altre domande.»

Ora toccava all’avvocato Ricci.


Si alzò lentamente, aggiustandosi la toga, con un sorriso cortese che non mi piaceva per niente.

«Signora Bianchi,» iniziò, «lei ha detto più volte di essere stata sotto forte stress quel giorno. È comprensibile: era il suo matrimonio, c’era tanta gente, molte emozioni. Conferma?»

«Sì.»

«Pensa che, in una situazione tanto carica, la sua percezione possa essere stata… alterata?»

«Ho visto quello che ho visto,» risposi piano. «Non ero ubriaca. Non avevo bevuto nulla fino a quel momento.»

Annuii. «Certo. Ma la mente umana, lei lo sa, a volte colma i vuoti. Non le è mai capitato di ricordare un dettaglio in un modo e poi scoprire che era diverso?»

«Come a tutti,» ammisi. «Ma in quel caso non c’erano vuoti. C’era Patrizia, il bicchiere e la pillola.»

Lui non si scompose. «Le chiedo: quando ha sostituito i bicchieri, lei sapeva perfettamente che nel bicchiere originario c’era qualcosa. Qualcosa che lei riteneva pericoloso. È corretto?»

«Sì. Non sapevo cosa fosse, ma ero sicura che non fosse per il mio bene.»

«Eppure,» proseguì l’avvocato, «lei non ha avvisato nessuno. Non ha chiamato un cameriere, non ha avvisato il futuro marito, non è andata dal direttore della villa. Non ha nemmeno buttato via il bicchiere. Ha scelto, invece, di lasciarlo lì, pronto perché qualcun altro lo bevesse. In questo caso, la signora Patrizia. È così?»

Sentii un brivido corrermi lungo la schiena. Era la domanda che temevo.

«Sì,» ammisi. «Non ho avvertito nessuno. Ho cambiato i bicchieri… e sono tornata al tavolo.»

«Quindi lei ha deliberatamente permesso che un’altra persona ingerisse una sostanza che lei riteneva pericolosa.»

«Io…» deglutii. «In quel momento, pensavo solo a non berla io. E avevo bisogno che qualcuno vedesse cosa aveva fatto.»

«Capisco.» Si voltò verso il giudice, poi di nuovo verso di me. «Lei prova rancore verso la signora Patrizia?»

«Non allora. Non in quel modo. Avevo paura di lei, sì. E mi sentivo rifiutata. Ma io non ho mai voluto farle del male.»

Lui inclinò la testa. «Eppure, signora Bianchi, se lei non avesse scambiato i bicchieri, oggi la signora Patrizia non avrebbe un procedimento penale a suo carico.»

Mi sfuggì un mezzo sorriso amaro. «Se lei non avesse messo la pillola nel mio bicchiere,» risposi, «oggi né lei né io saremmo qui.»

Per un istante, vidi una scintilla negli occhi della PM Conti. L’avvocato Ricci serrò le labbra.

«Nessun’altra domanda,» disse, tornando al suo posto.


Nei giorni successivi, si susseguirono i testimoni.

Il responsabile del catering spiegò l’organizzazione dei bicchieri. L’ispettore Marchetti raccontò le indagini sui filmati. Una consulente informatica mostrò più volte il video del tavolo d’onore, fermandolo, ingrandendo, indicando i segnaposto, la mano di Patrizia, la compressa che cadeva.

Poi fu il turno della sorella, Elena.

Si vedeva che le costava stare lì, fra la sorella sul banco degli imputati e noi seduti fra i banchi.

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