«Signora Elena,» chiese la PM, «lei è in cura con diazepam, giusto?»
«Sì,» rispose, stringendo la borsa sulle ginocchia. «Lo prendo per l’ansia.»
«Dove tiene di solito il farmaco?»
«Nel mobiletto del bagno.»
«E nei giorni precedenti il matrimonio, dov’era?»
«Da Patrizia. Stavo da lei qualche giorno per aiutarla con i preparativi. Tenevo i medicinali nel bagno della camera degli ospiti.»
«Quando la polizia le ha chiesto di controllare la confezione, quante compresse mancavano?»
«Cinque.»
L’avvocato Ricci provò a seminare dubbi: «Non è possibile che si sia sbagliata a contare? Che qualcun altro abbia preso le pillole senza dirglielo?»
Ma Elena fu ferma. «No. Le conto sempre. E nessuno, a casa di Patrizia, prende quel farmaco.»
Poi vennero i medici dell’ospedale, che confermarono la presenza di diazepam nel sangue di Patrizia, e uno psichiatra che spiegò gli effetti di una dose eccessiva: disinibizione, perdita di controllo, comportamenti bizzarri, amnesia.
«Quindi,» concluse la PM, «è plausibile che, con quella quantità nel sangue, la signora Patrizia si sia comportata come si vede nei video del ricevimento?»
«Sì,» rispose il medico. «Direi che è altamente probabile.»
Quando toccò a Patrizia, l’aria in aula cambiò.
Tutti trattennero il respiro mentre lei si alzava per andare al banco dei testimoni. Per un attimo, i nostri sguardi si incrociarono. Nel suo vidi qualcosa che non avevo mai visto prima: una paura nuda, quasi infantile.
L’avvocato Ricci la fece parlare della sua vita: il matrimonio lungo, le attività di volontariato, gli eventi organizzati per beneficenza. Ripeté più volte parole come “madre”, “famiglia”, “comunità”.
Poi arrivò al punto.
«Signora Patrizia,» disse a voce più bassa, «ha mai desiderato fare del male a Chiara?»
«No,» rispose lei, con gli occhi lucidi. «Non l’ho mai odiata. Non la capivo, questo sì. Non era quello che avevo immaginato per mio figlio, ma…» si fermò, cercando le parole. «Volevo proteggerlo. Tutto qui.»
«Può spiegare cosa è successo la sera del ricevimento, quando è andata al tavolo d’onore?» chiese l’avvocato, come se le porgesse un appiglio.
«Ero nervosa,» cominciò lei. «Dovevo fare un discorso, c’era tanta gente. Mia sorella mi aveva lasciato delle pastiglie per calmarmi. Le avevo in borsa. Sono andata al tavolo per prendere il bicchiere che credevo fosse il mio e…» si passò un fazzoletto sugli occhi. «Dev’essere successo un pasticcio. Ho sbagliato bicchiere. Avevo la testa piena, la sala era rumorosa…»
«Perché non ha detto niente ai camerieri, a suo figlio, a qualcuno, quando si è resa conto di stare male?» chiese la PM durante il controinterrogatorio.
Patrizia abbassò lo sguardo. «Mi vergognavo. Pensavo che avrebbero detto che ero debole, che non reggevo lo stress. Ero… fuori di me. Non ricordo bene quei momenti.»
La PM prese il tablet, proiettando ancora una volta il video del tavolo. Fermò l’immagine su Patrizia chinata sui segnaposto.
«Qui,» disse, «lei legge con attenzione i nomi. Questo è quello di Chiara. Lei è una donna intelligente, abituata a organizzare eventi. Vuole dire al giudice che, nonostante ciò, ha confuso il suo bicchiere con quello della nuora che non voleva veder sposata con suo figlio?»
Patrizia esitò. «Io… non so cosa sia passato nella mia testa in quel momento.»
«E perché,» incalzò la PM, «se davvero la compressa era per lei, non l’ha semplicemente presa con un sorso d’acqua in bagno, come fa la maggior parte delle persone? Perché metterla in un bicchiere in mezzo alla sala, davanti a tutti?»
Silenzio. In quell’istante, vidi la maschera incrinarsi.
«Perché…» mormorò Patrizia, e la sua voce accesa un poco, quasi irritata, «perché era tutto fuori controllo. Lui si sposava, la famiglia cambiava, io non contavo più…»
Si fermò, come rendendosi conto di quello che stava dicendo. Ma la PM non perse l’occasione.
«Intende dire che si sentiva messa da parte?»
«Mi sentivo… sostituita,» esplose Patrizia, all’improvviso più accesa. «Chiara era ovunque: nelle foto, nelle parole, nei discorsi. Io ero quella che preparava, che organizzava, e nessuno mi vedeva più. E allora…»
Si interruppe, tremante. La PM la guardò diritto negli occhi.
«E allora?» chiese.
«E allora ho pensato che… se quella sera non fosse andata liscia, se lei avesse fatto qualche figura… lui avrebbe capito. Avrebbe visto chi era la persona veramente stabile, affidabile.»
L’aula rimase muta. Mi parve che anche i rumori del corridoio si fossero spenti.
L’avvocato Ricci si alzò di scatto. «La mia assistita è provata, signor Giudice. Chiedo che l’esame venga sospeso.»
Ma era troppo tardi. Le parole erano usciti. E non si potevano più rimangiare.
Le arringhe finali arrivarono dopo pochi giorni.
La PM Conti parlò di Patrizia non come di un mostro, ma come di una donna incapace di accettare che il figlio diventasse adulto. «Non è la cattiveria da romanzo a portare a certi gesti,» disse. «È la somma di orgoglio, controllo, paura di perdere il ruolo. Ma, signor Giudice, la paura non giustifica un bicchiere di spumante trasformato in arma.»
L’avvocato Ricci insistette sull’assenza di precedenti, sulle opere buone, sulla “confusione emotiva” di una madre il giorno del matrimonio del figlio. Chiese una derubricazione, una pena mite, magari sospesa.
Quando il giudice si ritirò in camera di consiglio, le gambe mi tremavano. Marco mi teneva la mano così forte che quasi faceva male.
«E se…» iniziai.
«Basta se,» disse lui, fissando un punto nel vuoto. «Abbiamo fatto tutto quello che potevamo. Adesso tocca alla legge.»
L’attesa fu lunga. Quando il giudice rientrò in aula, tutti si alzarono.
La sentenza fu letta con quella voce neutra che dovrebbe rendere le cose meno pesanti, e invece le rende incise nella pietra.
«Ritenuta la signora Patrizia Bianchi responsabile dei reati a lei ascritti,» disse il giudice, «condanna la medesima alla pena di tre anni di reclusione, oltre al pagamento di una provvisionale in favore della parte civile, signora Chiara Bianchi, a titolo di risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali. Viene inoltre disposto il divieto di avvicinamento alla persona offesa per anni dieci.»
Tre anni.
Non i cinque massimi richiesti dalla PM, non la sospensione condizionale che voleva la difesa. Qualcosa nel mezzo, ma pur sempre carcere vero.
Patrizia lasciò andare un gemito soffocato. Giorgio, seduto in fondo, chiuse gli occhi. Luca aveva il viso fra le mani.
Io non esultai. Non urlai “giustizia”, come qualcuno sui social avrebbe voluto. Sentii solo un grande vuoto e, sotto, un filo sottile di sollievo: non ero pazza, non avevo esagerato, quello che avevo visto e sentito contava.
Marco mi voltò verso di sé e mi abbracciò.
«È finita,» sussurrò. «Almeno questa parte.»
Il “dopo” durò anni.
Patrizia venne trasferita in un carcere a un’ora di distanza. Non la vidi entrare. La vidi, invece, per mesi sui giornali: foto di lei che usciva dal tribunale, titoli come «La suocera dello spumante in cella», articoli che parlavano dei suoi anni nei comitati, nelle associazioni, e di come in paese nessuno se lo sarebbe mai aspettato.
Il circolo esclusivo dove andava da anni la sospese quasi subito. Le associazioni in cui era attiva la invitarono “gentilmente” a dimettersi. Quelle poche amiche che le erano rimaste vicine durante il processo cominciarono a farsi vedere sempre meno.
Giorgio portò avanti il divorzio. Cedette la casa a Patrizia, che però la vendette per pagare parte delle spese legali e del risarcimento. Lui si trasferì in una cittadina sul mare, da solo. Ogni tanto mandava messaggi a Marco, freddi e brevi. Il rapporto non tornò mai com’era prima. Forse, in realtà, prima non c’era molto.
Luca fu quello che pagò più caro, psicologicamente.
Dopo qualche mese sul nostro divano, cominciò il percorso di terapia seriamente. Si iscrisse di nuovo all’università, ma in un’altra città, lontana dai giornali locali che avevano raccontato tutto.
«Non voglio che mi conoscano come “il figlio della suocera” prima ancora di sapere come mi chiamo,» disse.
Scelse Scienze dell’educazione. «Voglio lavorare con i ragazzi che hanno famiglie difficili,» mi spiegò una sera, mentre apparecchiavamo. «Così magari quello che ci è successo serve a qualcosa.»
E io, ogni volta che lo vedevo sorridere di nuovo, pensavo che sì, in qualche modo stava già servendo.
Anche per me le conseguenze non finirono con la sentenza.
Tornai a scuola qualche mese dopo il processo. I corridoi, all’inizio, mi parevano pieni di occhi. «Ecco la prof del caso dello spumante», sussurravano alcuni. Gli studenti più grandi facevano finta di niente, ma si capiva che sapevano.
Col tempo, però, il “caso” lasciò spazio al quotidiano. Tornai a essere “la prof di italiano che dà troppi temi e ascolta davvero quando parli”. I ragazzi avevano altri problemi, altri video da condividere, altri scandali di cui parlare.
A casa, io e Marco non ci limitammo a tirare un sospiro di sollievo. Sapevamo che qualcosa si era spezzato, la notte in cui lui era andato a dormire altrove invece che restare accanto a me.
«Ti ho lasciata sola nel momento peggiore,» mi disse un giorno, in studio dalla dottoressa Rebecchi. «Non so se riuscirò mai a perdonarmi.»
«Hai fatto quello che eri in grado di fare allora,» rispose la psicologa. «Con gli strumenti che avevi. Ora ne hai altri. E lo dimostri ogni giorno.»
Per me, perdonarlo fu un processo a scatti. C’erano giorni in cui lo guardavo e vedevo solo l’uomo che aveva scelto me, che si era seduto dietro di me in tribunale per mesi, che aveva aiutato il fratello a rimettersi in piedi. Altri in cui la voce del passato sussurrava: “Ti ha creduta solo quando ha visto il video”.
Ma la cosa che imparai, con il tempo, fu che il perdono non è un interruttore, è un muscolo. Va allenato.
Patrizia scontò due anni pieni, poi uscì per buona condotta, con l’obbligo di firma. Si trasferì in un’altra regione, in un bilocale in affitto. Non la vedevo, ma ogni tanto arrivavano notizie tramite Luca.
«Ha trovato lavoro a mezza giornata in una biblioteca,» ci disse una volta. «E dà una mano in un centro per donne in difficoltà.»
L’ironia non sfuggì a nessuno. La donna che aveva cercato di controllare la vita del figlio ora aiutava altre donne a riconoscere i controlli degli altri.
Luca le scriveva ogni tanto. Marco no. Io per niente.
«Non te la senti di risponderle, se ti scrive?» mi chiese una sera Marco.






